Il video-colloquio realizzato a Venezia il 7 marzo 2012 con Vito Garramone, di cui si restituisce qui sotto il contenuto, è incentrato sul tema del ruolo della montagna in quella che ormai è comunemente denominata “società della conoscenza”. In primo luogo, il colloquio affronta la questione dei contenuti, ovvero del carattere costitutivo e distintivo della società della conoscenza: questione che, se tralasciata, rischia di fondare il resto delle osservazioni su un mero luogo comune, ossia sul nulla. Nell’opinione mainstream (leggibile non soltanto nei documenti delle grandi organizzazioni internazionali, ma anche negli scritti di molti studiosi), la società della conoscenza si caratterizza per la dominanza quantitativa assunta dal lavoro intellettuale sul totale dell’occupazione e/o della relativa quota di valore aggiunto sul prodotto interno totale. Interpretazione sicuramente rispondente alla realtà delle cose, ma quanto rilevante in termini di capacità esplicativa e di intervento? Nel colloquio viene proposta una diversa interpretazione, secondo la quale la società della conoscenza si caratterizza per l’impressionate e, probabilmente, crescente divario tra la disponibilità di dati e la capacità di trattarli, da un lato, rese possibili dall’avvento delle ICT (Information and Communication Technologies), e la sopravvenuta penuria, dall’altro lato, di schemi interpretativi che siano in grado di dare un senso socialmente rilevante a tale massa di dati. Di conseguenza, il tratto caratteristico della società della conoscenza è indicato nello spostamento dell’attenzione, che in essa si richiede, dal dato al codice interpretativo, dalla ricerca di informazioni che si reputano (erroneamente) esistenti di per sé, a quella dei modi più opportuni per costruire schemi cognitivi, per conoscere come si forma la stessa conoscenza. L’ipotesi è anche che la penuria degli schemi interpretativi nella quale si trova la contemporaneità sia la conseguenza del venir meno delle “grandi narrazioni” dell’epoca della modernità, le quali fungevano da “paesaggio culturale” di riferimento, fornendo la possibilità di trovare un luogo mentale socialmente condiviso nel quale “far riposare l’animo”, “ritrovare l’armonia” di fronte al prodursi continuo e talora tumultuoso degli eventi. Col venir meno delle certezze (per molta parte infondate) e delle grandi narrazioni della modernità, l’uomo della post-modernità si trova sguarnito di un simile paesaggio di riferimento mentale, disorientato, esposto alle intemperie degli eventi e, in fondo, al rischio della soccombenza culturale. Su questo sfondo, la montagna può proporsi come il luogo nel quale si realizza il contatto, a livello esperienziale (di un’esperienza vitale e anche gioiosa), tra il paesaggio fluido, disorientante ed inquietante della condizione post-moderna e il paesaggio relativamente saldo di un mondo che trova ancora il suo fondamento, anche materiale, nel rapporto con la “terra” e, più in generale, con la natura. Non si tratta, per il mondo della montagna, di proporre un ritorno al passato (che sembrerebbe ingenuo), bensì di offrire una palestra ove poter esercitare l’esperienza del confronto tra un paesaggio culturale (e anche fisico) “ancorato” e quello ormai disancorato della postmodernità: una palestra per apprendere che un paesaggio – che è, al fondo, il luogo del ritrovamento di se stessi nel mondo − è forse ancora possibile.

Conoscenza, innovazione e sviluppo economico

CUSINATO, AUGUSTO
2012-01-01

Abstract

Il video-colloquio realizzato a Venezia il 7 marzo 2012 con Vito Garramone, di cui si restituisce qui sotto il contenuto, è incentrato sul tema del ruolo della montagna in quella che ormai è comunemente denominata “società della conoscenza”. In primo luogo, il colloquio affronta la questione dei contenuti, ovvero del carattere costitutivo e distintivo della società della conoscenza: questione che, se tralasciata, rischia di fondare il resto delle osservazioni su un mero luogo comune, ossia sul nulla. Nell’opinione mainstream (leggibile non soltanto nei documenti delle grandi organizzazioni internazionali, ma anche negli scritti di molti studiosi), la società della conoscenza si caratterizza per la dominanza quantitativa assunta dal lavoro intellettuale sul totale dell’occupazione e/o della relativa quota di valore aggiunto sul prodotto interno totale. Interpretazione sicuramente rispondente alla realtà delle cose, ma quanto rilevante in termini di capacità esplicativa e di intervento? Nel colloquio viene proposta una diversa interpretazione, secondo la quale la società della conoscenza si caratterizza per l’impressionate e, probabilmente, crescente divario tra la disponibilità di dati e la capacità di trattarli, da un lato, rese possibili dall’avvento delle ICT (Information and Communication Technologies), e la sopravvenuta penuria, dall’altro lato, di schemi interpretativi che siano in grado di dare un senso socialmente rilevante a tale massa di dati. Di conseguenza, il tratto caratteristico della società della conoscenza è indicato nello spostamento dell’attenzione, che in essa si richiede, dal dato al codice interpretativo, dalla ricerca di informazioni che si reputano (erroneamente) esistenti di per sé, a quella dei modi più opportuni per costruire schemi cognitivi, per conoscere come si forma la stessa conoscenza. L’ipotesi è anche che la penuria degli schemi interpretativi nella quale si trova la contemporaneità sia la conseguenza del venir meno delle “grandi narrazioni” dell’epoca della modernità, le quali fungevano da “paesaggio culturale” di riferimento, fornendo la possibilità di trovare un luogo mentale socialmente condiviso nel quale “far riposare l’animo”, “ritrovare l’armonia” di fronte al prodursi continuo e talora tumultuoso degli eventi. Col venir meno delle certezze (per molta parte infondate) e delle grandi narrazioni della modernità, l’uomo della post-modernità si trova sguarnito di un simile paesaggio di riferimento mentale, disorientato, esposto alle intemperie degli eventi e, in fondo, al rischio della soccombenza culturale. Su questo sfondo, la montagna può proporsi come il luogo nel quale si realizza il contatto, a livello esperienziale (di un’esperienza vitale e anche gioiosa), tra il paesaggio fluido, disorientante ed inquietante della condizione post-moderna e il paesaggio relativamente saldo di un mondo che trova ancora il suo fondamento, anche materiale, nel rapporto con la “terra” e, più in generale, con la natura. Non si tratta, per il mondo della montagna, di proporre un ritorno al passato (che sembrerebbe ingenuo), bensì di offrire una palestra ove poter esercitare l’esperienza del confronto tra un paesaggio culturale (e anche fisico) “ancorato” e quello ormai disancorato della postmodernità: una palestra per apprendere che un paesaggio – che è, al fondo, il luogo del ritrovamento di se stessi nel mondo − è forse ancora possibile.
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