Al di là delle evidenti differenti declinazioni proposte per il tema e il concetto di ri-ciclo già in parte presenti nella tassonomia proposta nell'articolo – sono emersi almeno due-tre piani distinti di discorso, che forse possono chiarire in parte i nessi e le possibili correlazioni fra le linee di pensiero individuate ed i filoni di ricerca ed elaborazione che ne derivano. Da un lato, il concetto di nuovo ciclo di vita si propone come possibile costruttore di un nuovo scenario futuro dei modelli insediativi e del loro rapporto con i paesaggi italiani del XXI secolo: si tratta in questo caso di un’elaborazione che sembra dover far leva su una visione “autoriale” (non uso a caso questo termine, che richiama appunto elaborazioni “visionarie” da parte della cultura architettonico-urbana, talvolta sconfinanti in “utopie” più o meno possibili o futuribili, e in tal senso comunque “innovative”) basata su nuovi paradigmi sia socio-economici sia urbanistico-territoriali, capace di rovesciare i termini di lettura del quadro territoriale presente. Non a caso si insiste da più parti sulla messa a punto di “nuovi paradigmi”, di una mappatura della “città inversa”, della necessità insomma di lanciare un “nuovo sguardo” sui fenomeni di trasformazione urbana e territoriale e di “cambiare verso” al governo di tali fenomeni. Si tratta quindi di elaborare da parte della cultura architettonico-urbanistica, a partire da una coscienza “politica” attenta e disincantata, visioni rinnovate e strategiche, fondate sul concetto di nuovo ciclo di vita, capaci di informare la filosofia e le tecniche di lettura e gli strumenti di governo di quei fenomeni medesimi, in cui possono trovare senso anche le parole d’ordine spesso abusate che ricorrono nei nostri discorsi programmatici, quali paesaggio e sostenibilità. Da un altro lato, il concetto di riciclo, in termini più tecnici e strumentali, sembra proporsi come chiave di volta per un’azione, per sua necessità squisitamente “politica”, e quindi per l’intervento concreto sui processi in atto, attraverso “azioni” mirate, incisive, “tattiche”, molto spesso compiute secondo interventi “dal basso”, capillari, “omeopatici”, infiltranti il corpo delle città e dei territori. Si tratta quindi di innescare e attuare progressivamente “processi” ri-generatori, nei quali gioca di nuovo un ruolo, da un lato, l’”autorialità” in fase di innesco dei processi stessi (dando spazio a un taglio più creativo e inventivo di azione progettuale) e dall’altro la “politicità” in fase di progressività dell’azione e di messa a sistema dei processi trasformativi (con l’intervento anche di meccanismi e incentivi di tipo economico-fiscale, normativo-legislativo e squisitamente politico). Lo strumento progettuale del riciclo, con la sua incisività e innovatività sia in senso ecologico sia in senso economico - persino laddove ripensi e rimetta in essere tecniche già collaudate e sperimentate nel passato nelle nostre discipline - può forse uscire allora dalle secche della parola d’ordine “politically correct” e farsi invece portatore di un rinnovamento anche degli strumenti disciplinari dell’architettura, come avviene nelle sperimentazioni più interessanti dell’architettura internazionale, convertendosi non troppo paradossalmente in un più interessante significato “politically uncorrect”. Non è in tal senso certamente casuale la celebrazione sempre più frequente di figure che in questo campo hanno aperto le porte da tempo ad una efficace e audace sperimentazione: dal Pritzker a Shigeru Ban, al successo crescente degli appelli “ecologici” e “sociali” di architetti altrettanto e più sperimentatori, anche sul piano delle tecnologie, quali Toyo Ito o Kengo Kuma, alla crescente influenza in Italia, e non solo, di un guru come Renzo Piano, solo per citare alcune fra le esperienze mediaticamente più visibili. Benché io creda – proprio per questo - che sia poco appropriato parlare di esigenze di “rammendo” come ha fatto di recente Renzo Piano nella sua campagna mediatica, con un termine che troppo richiama ipotesi di rimedio e riparazione o mitigazione, mentre nella parola “ri-ciclo” sembra ritrovarsi una determinazione più forte e radicale, quindi più convincente, a favore di un necessario rovesciamento di prospettiva.

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BOCCHI, RENATO
2014-01-01

Abstract

Al di là delle evidenti differenti declinazioni proposte per il tema e il concetto di ri-ciclo già in parte presenti nella tassonomia proposta nell'articolo – sono emersi almeno due-tre piani distinti di discorso, che forse possono chiarire in parte i nessi e le possibili correlazioni fra le linee di pensiero individuate ed i filoni di ricerca ed elaborazione che ne derivano. Da un lato, il concetto di nuovo ciclo di vita si propone come possibile costruttore di un nuovo scenario futuro dei modelli insediativi e del loro rapporto con i paesaggi italiani del XXI secolo: si tratta in questo caso di un’elaborazione che sembra dover far leva su una visione “autoriale” (non uso a caso questo termine, che richiama appunto elaborazioni “visionarie” da parte della cultura architettonico-urbana, talvolta sconfinanti in “utopie” più o meno possibili o futuribili, e in tal senso comunque “innovative”) basata su nuovi paradigmi sia socio-economici sia urbanistico-territoriali, capace di rovesciare i termini di lettura del quadro territoriale presente. Non a caso si insiste da più parti sulla messa a punto di “nuovi paradigmi”, di una mappatura della “città inversa”, della necessità insomma di lanciare un “nuovo sguardo” sui fenomeni di trasformazione urbana e territoriale e di “cambiare verso” al governo di tali fenomeni. Si tratta quindi di elaborare da parte della cultura architettonico-urbanistica, a partire da una coscienza “politica” attenta e disincantata, visioni rinnovate e strategiche, fondate sul concetto di nuovo ciclo di vita, capaci di informare la filosofia e le tecniche di lettura e gli strumenti di governo di quei fenomeni medesimi, in cui possono trovare senso anche le parole d’ordine spesso abusate che ricorrono nei nostri discorsi programmatici, quali paesaggio e sostenibilità. Da un altro lato, il concetto di riciclo, in termini più tecnici e strumentali, sembra proporsi come chiave di volta per un’azione, per sua necessità squisitamente “politica”, e quindi per l’intervento concreto sui processi in atto, attraverso “azioni” mirate, incisive, “tattiche”, molto spesso compiute secondo interventi “dal basso”, capillari, “omeopatici”, infiltranti il corpo delle città e dei territori. Si tratta quindi di innescare e attuare progressivamente “processi” ri-generatori, nei quali gioca di nuovo un ruolo, da un lato, l’”autorialità” in fase di innesco dei processi stessi (dando spazio a un taglio più creativo e inventivo di azione progettuale) e dall’altro la “politicità” in fase di progressività dell’azione e di messa a sistema dei processi trasformativi (con l’intervento anche di meccanismi e incentivi di tipo economico-fiscale, normativo-legislativo e squisitamente politico). Lo strumento progettuale del riciclo, con la sua incisività e innovatività sia in senso ecologico sia in senso economico - persino laddove ripensi e rimetta in essere tecniche già collaudate e sperimentate nel passato nelle nostre discipline - può forse uscire allora dalle secche della parola d’ordine “politically correct” e farsi invece portatore di un rinnovamento anche degli strumenti disciplinari dell’architettura, come avviene nelle sperimentazioni più interessanti dell’architettura internazionale, convertendosi non troppo paradossalmente in un più interessante significato “politically uncorrect”. Non è in tal senso certamente casuale la celebrazione sempre più frequente di figure che in questo campo hanno aperto le porte da tempo ad una efficace e audace sperimentazione: dal Pritzker a Shigeru Ban, al successo crescente degli appelli “ecologici” e “sociali” di architetti altrettanto e più sperimentatori, anche sul piano delle tecnologie, quali Toyo Ito o Kengo Kuma, alla crescente influenza in Italia, e non solo, di un guru come Renzo Piano, solo per citare alcune fra le esperienze mediaticamente più visibili. Benché io creda – proprio per questo - che sia poco appropriato parlare di esigenze di “rammendo” come ha fatto di recente Renzo Piano nella sua campagna mediatica, con un termine che troppo richiama ipotesi di rimedio e riparazione o mitigazione, mentre nella parola “ri-ciclo” sembra ritrovarsi una determinazione più forte e radicale, quindi più convincente, a favore di un necessario rovesciamento di prospettiva.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11578/209900
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