Perentorio risuona ed esige di essere cercato e ascoltato il tema del limite in architettura, o dell’architettura ai limiti, per l’effetto di straniamento che può produrre. Effetto che acquista un significato importante in un progetto di Oscar Niemeyer poco conosciuto, poco studiato, il cui impatto straniante sull’osservatore si impone nella figura di uno stupore smisurato: la Fiera Internazionale e Permanente nella città di Tripoli nel Libano. È un progetto iniziato nel 1962 per volontà del governo libanese e mai portato a termine a causa della perdurante guerra civile che sta tuttora devastando il paese e il Medio Oriente. Il progetto del tracciato urbano rispetta l’esistente disegno viario dell’avenida costiera e dell’autostrada che collega Beirut alla Siria, ottimizzando gli accessi e i collegamenti del nuovo quartiere urbano che Niemeyer originariamente prevedeva vicino alla costa, segnato dalla forte figura dell’ellisse del complesso fieristico, il cui “recinto” è delimitato dal progetto infrastrutturale nella sua complessità e articolazione di velocità di percorso differenti. Nello scritto sulla Fiera Internazionale e Permanente di Tripoli, pubblicato nella rivista «Modulo», VII, 30 del 1962, Niemeyer parla di un progetto di urbanizzazione che «doterà Tripoli di un quartiere moderno» tra l’area costiera e la Fiera, pensato con lo sguardo rivolto alla futura espansione della città dotato di zone residenziali, aree commerciali, sportive, ricreative e turistiche supportate da scuole, negozi, club, alberghi, cinema, teatri, spazi espositivi, architetture per il culto e di quant’altro è necessario alla vita, secondo un’intenzione di superamento di stretti rapporti di prossimità territoriale e di vicinanza. L’insieme della Fiera di Tripoli si presenta in una forma quasi surreale di giardini e dimore di piaceri, come se Niemeyer avesse fatto uscire dalla dimensione bidimensionale i protagonisti di un film cinematografico o quadro pittorico e li avesse ricomposti in chiave nuova spezzando ogni vincolo di tempo e spazio e simultaneamente affermando che la poesia del fare architettonico è reale e possibile in quanto surreale. Quasi un tentativo di ordine del caos, del caos del quadro urbano, mettendone a soqquadro e scomponendone gli elementi per poi riassemblarli in ogni dettaglio e ricomporli in un’altra forma di ordine/dis-ordine. Una tensione continua attraversa lo spazio delimitato dall’elemento rettilineo e le forme curve, il cui carattere “misterioso” è sito nell’incompiutezza dell’opera. Per questo la narrazione della vita umana si muove in una maestosità, del tutto “a casa” nel fuori-scala, che si compone di micro-narrazioni nelle quali il visitatore, nelle tappe del suo cammino, si sente a sua volta “a casa”, accolto nel tutto e letteralmente si scopre e riconosce, con i suoi ritmi, il luogo di un’umanità rinnovata nella propria, abbagliante, bellezza. Dal luogo dell’oggetto verso il luogo di un nuovo soggetto.

La curva della retta. Il torso di Niemeyer a Tripoli

RAKOWITZ, GUNDULA
2016-01-01

Abstract

Perentorio risuona ed esige di essere cercato e ascoltato il tema del limite in architettura, o dell’architettura ai limiti, per l’effetto di straniamento che può produrre. Effetto che acquista un significato importante in un progetto di Oscar Niemeyer poco conosciuto, poco studiato, il cui impatto straniante sull’osservatore si impone nella figura di uno stupore smisurato: la Fiera Internazionale e Permanente nella città di Tripoli nel Libano. È un progetto iniziato nel 1962 per volontà del governo libanese e mai portato a termine a causa della perdurante guerra civile che sta tuttora devastando il paese e il Medio Oriente. Il progetto del tracciato urbano rispetta l’esistente disegno viario dell’avenida costiera e dell’autostrada che collega Beirut alla Siria, ottimizzando gli accessi e i collegamenti del nuovo quartiere urbano che Niemeyer originariamente prevedeva vicino alla costa, segnato dalla forte figura dell’ellisse del complesso fieristico, il cui “recinto” è delimitato dal progetto infrastrutturale nella sua complessità e articolazione di velocità di percorso differenti. Nello scritto sulla Fiera Internazionale e Permanente di Tripoli, pubblicato nella rivista «Modulo», VII, 30 del 1962, Niemeyer parla di un progetto di urbanizzazione che «doterà Tripoli di un quartiere moderno» tra l’area costiera e la Fiera, pensato con lo sguardo rivolto alla futura espansione della città dotato di zone residenziali, aree commerciali, sportive, ricreative e turistiche supportate da scuole, negozi, club, alberghi, cinema, teatri, spazi espositivi, architetture per il culto e di quant’altro è necessario alla vita, secondo un’intenzione di superamento di stretti rapporti di prossimità territoriale e di vicinanza. L’insieme della Fiera di Tripoli si presenta in una forma quasi surreale di giardini e dimore di piaceri, come se Niemeyer avesse fatto uscire dalla dimensione bidimensionale i protagonisti di un film cinematografico o quadro pittorico e li avesse ricomposti in chiave nuova spezzando ogni vincolo di tempo e spazio e simultaneamente affermando che la poesia del fare architettonico è reale e possibile in quanto surreale. Quasi un tentativo di ordine del caos, del caos del quadro urbano, mettendone a soqquadro e scomponendone gli elementi per poi riassemblarli in ogni dettaglio e ricomporli in un’altra forma di ordine/dis-ordine. Una tensione continua attraversa lo spazio delimitato dall’elemento rettilineo e le forme curve, il cui carattere “misterioso” è sito nell’incompiutezza dell’opera. Per questo la narrazione della vita umana si muove in una maestosità, del tutto “a casa” nel fuori-scala, che si compone di micro-narrazioni nelle quali il visitatore, nelle tappe del suo cammino, si sente a sua volta “a casa”, accolto nel tutto e letteralmente si scopre e riconosce, con i suoi ritmi, il luogo di un’umanità rinnovata nella propria, abbagliante, bellezza. Dal luogo dell’oggetto verso il luogo di un nuovo soggetto.
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