Scancellare i sensi, rimuovere i propri limiti fisici, uscire dal corpo: espressioni che sembrano cogliere più le istanze di un percorso iniziatico, l’incipit ad una via mistica alla conoscenza, in cui la pura trascendenza diventa – in un apparente ossimoro - dominio del quotidiano, piuttosto che le coordinate con le quali esperire e interpretare lo spazio di alcuni artefatti contemporanei. La fruizione artistica, così come la genesi delle opere sulla cui analisi essa si basa, sembra oggi aver rimosso l’ingombrante astanza degli oggetti sterzando, in alcuni casi, verso forme che da essa paiono prescindere, non producendo immagini (nell’accezione convenzionale del termine), né richiedendo che qualcosa venga focalizzato dal nostro sguardo. Appare evidente come l’elemento centrale della Novecentesca civiltà delle immagini – ovvero, il domino del visivo – si stia radicalmente trasformando, invitando il fruitore ad una espansione sensoriale che dilati l’esperienza percettiva, ma che al contempo introduca ad un nuovo tipo di opacità, di cecità indotta, sia pure temporanea. E’ infatti evidente che essa richieda l’azzeramento delle tradizionali procedure di interpretazione e godimento delle opere, producendo un iniziale stato di paralisi dei nostri organi visivi ma, al contempo, scatenando una conseguente espansione (o trasformazione) degli altri sensi, denigrati o vilipesi dal precedente dominio conoscitivo. Questo tipo di denigrazione, le cui origini vanno rintracciate nel platonico disprezzo del percetto sensoriale, storicamente inizia ad essere controbattuto da Cartesio in poi, quando con lo sviluppo della scienza matematica della natura “… progressivamente si accentua il ruolo della percezione sensoriale, rendendo così possibile il sensismo nella sua forma più radicale. Il tentativo kantiano di fondare in sede gnoseologica una posizione mediana tra due estremi, in virtù di un equilibrio tra ‘elemento creativo’ ed ‘elemento passivo’ nel processo conoscitivo, pare aver perso forza di persuasione, considerando anche il crescente influsso delle scienze della natura rispetto al neopositivismo logico.”(H. Plessner, Antropologia dei sensi, Padova 2008 p. 8). La situazione percettivo-gnoseologica in cui questo nuovo modo di intendere lo spazio ci proietta appare talvolta, come si diceva, più legata a pratiche di meditazione o a stati alterati di coscienza, ma sempre con un sub-strato vigile: l’artista ci accompagna fino alla soglia di una spazio liminale nel quale ci invita ad entrare, lasciando che in noi si compia l’esperienza del luogo, l’epifania della sinestetica percezione di luci, suoni, materie e, talvolta, odori e sapori, ma ancora più spesso anche alla deprivazione sensoriale, all’incontro con l’altro da sé rappresentato dal buio e dall’ombra. L’iniziale stordimento palesa spesso come l’artista cerchi di comunicare alla parte limbica, associativa del nostro cervello, lasciando per alcuni istanti che invece quella pre-frontale, logica, sia relegata sullo sfondo. Una sorta di risveglio della parte più archetipica, animale del nostro sistema percettivo, capace di cogliere sollecitazioni sottili, oggi disperse nell’inquinamento endemico che domina il mondo contemporaneo. Tuttavia, l’attenzione, sia pure soffusa e straniata, è sempre richiesta perché l’esperienza estetica sia piena e soprattutto raccontabile, forse con un nuovo vocabolario, fatto più di allusioni, metafore e simboli che di circostanziate registrazioni di ciò che è accaduto in istallazioni di questo tipo. In tal senso, le strategie fruitive in campo sembrano assimilabili a quelle dei cosiddetti sogni lucidi, nei quali l’onironauta - di cui Fëdor Michajlovič Dostoevskij già ci fornisce, in tempi non sospetti, una descrizione-, è consapevole di stare sognando, al punto da essere in grado di orientare il proprio percorso all’interno del sogno, intervenendo addirittura nella sua sceneggiatura psichica. L’esperienza è irriducibile al linguaggio descrittivo che passa attraverso i comuni sensi, o meglio si basa su un livello comunicativo in cui essi deflagrano, si dilatano allo spasimo, divenendo massimamente ricettivi a tutte le sollecitazioni provenienti da un mondo sia pur onirico, ma pur sempre un mondo. Come nel Buddhismo Mahayana in cui l’esperienza del vuoto, raggiungibile attraverso il percorso retto additato dall’ottuplice sentiero, passa attraverso i sensi ma da essi si emancipa per arrivare alla non consapevolezza dell’azione gnostica intrapresa, anche il sognatore lucido, come il corpo percepente degli artefatti contemporanei, effrange le barriere percettive. Lo spazio della vita secolare e quello dell’esperienza artistica ed architettonica sono divenuti infatti, negli ultimi decenni, domini sempre più contigui, in cui i sensi del fruitore ora sono stati messi a dura prova, iper-sollecitati dalla volontà vessatoria dell’artista-progettista; ora invece blanditi dall’atmosfera accogliente e benevolmente immersiva di installazioni o di ambienti in cui si entra nella speranza di una palingenesi globale, non solo percettiva ma spesso anche spirituale. Oltre a mettere in palese discussione i limiti delle nostre capacità sensorie, queste opere producono nuove domande, dal momento che in esse impressioni visive, acustiche e aptiche si scambiano vicendevolmente, cancellandosi o esaltandosi: sono dunque ancora validi i consolidati parametri valutativi e rappresentativi per opere che, nel loro dispiegarsi, ci interrogano su cosa stiamo vedendo, sentendo o toccando? Intrecciati ad insospettabili approcci espressivi del passato, caratterizzati da un appeal sinestetico, questi nuovi luoghi dell’esperienza si sottopongono alla nostra attenzione privi di oggetto, immagine e fuoco su cui tentare di concentrare l’attenzione: lo spazio strutturato si dissolve in un campo percettivo totale e, ricondotti alla loro più pura struttura percettiva – quasi disincarnati e ricondotti a pure casse di risonanza del mondo fenomenico esterno -, i sensi paiono perdere la capacità di descrivere il mondo. Un nuovo modo di vedere, sentire, toccare sembra allora costituire la koinè di un altrettanto nuovo modo di immaginare lo spazio, in cui i confini tra ambiente ecologico e paesaggio interiore definiscono una nuova geografia e una nuova storia.

In Darkness Let Me Dwell

DE ROSA, AGOSTINO
2012-01-01

Abstract

Scancellare i sensi, rimuovere i propri limiti fisici, uscire dal corpo: espressioni che sembrano cogliere più le istanze di un percorso iniziatico, l’incipit ad una via mistica alla conoscenza, in cui la pura trascendenza diventa – in un apparente ossimoro - dominio del quotidiano, piuttosto che le coordinate con le quali esperire e interpretare lo spazio di alcuni artefatti contemporanei. La fruizione artistica, così come la genesi delle opere sulla cui analisi essa si basa, sembra oggi aver rimosso l’ingombrante astanza degli oggetti sterzando, in alcuni casi, verso forme che da essa paiono prescindere, non producendo immagini (nell’accezione convenzionale del termine), né richiedendo che qualcosa venga focalizzato dal nostro sguardo. Appare evidente come l’elemento centrale della Novecentesca civiltà delle immagini – ovvero, il domino del visivo – si stia radicalmente trasformando, invitando il fruitore ad una espansione sensoriale che dilati l’esperienza percettiva, ma che al contempo introduca ad un nuovo tipo di opacità, di cecità indotta, sia pure temporanea. E’ infatti evidente che essa richieda l’azzeramento delle tradizionali procedure di interpretazione e godimento delle opere, producendo un iniziale stato di paralisi dei nostri organi visivi ma, al contempo, scatenando una conseguente espansione (o trasformazione) degli altri sensi, denigrati o vilipesi dal precedente dominio conoscitivo. Questo tipo di denigrazione, le cui origini vanno rintracciate nel platonico disprezzo del percetto sensoriale, storicamente inizia ad essere controbattuto da Cartesio in poi, quando con lo sviluppo della scienza matematica della natura “… progressivamente si accentua il ruolo della percezione sensoriale, rendendo così possibile il sensismo nella sua forma più radicale. Il tentativo kantiano di fondare in sede gnoseologica una posizione mediana tra due estremi, in virtù di un equilibrio tra ‘elemento creativo’ ed ‘elemento passivo’ nel processo conoscitivo, pare aver perso forza di persuasione, considerando anche il crescente influsso delle scienze della natura rispetto al neopositivismo logico.”(H. Plessner, Antropologia dei sensi, Padova 2008 p. 8). La situazione percettivo-gnoseologica in cui questo nuovo modo di intendere lo spazio ci proietta appare talvolta, come si diceva, più legata a pratiche di meditazione o a stati alterati di coscienza, ma sempre con un sub-strato vigile: l’artista ci accompagna fino alla soglia di una spazio liminale nel quale ci invita ad entrare, lasciando che in noi si compia l’esperienza del luogo, l’epifania della sinestetica percezione di luci, suoni, materie e, talvolta, odori e sapori, ma ancora più spesso anche alla deprivazione sensoriale, all’incontro con l’altro da sé rappresentato dal buio e dall’ombra. L’iniziale stordimento palesa spesso come l’artista cerchi di comunicare alla parte limbica, associativa del nostro cervello, lasciando per alcuni istanti che invece quella pre-frontale, logica, sia relegata sullo sfondo. Una sorta di risveglio della parte più archetipica, animale del nostro sistema percettivo, capace di cogliere sollecitazioni sottili, oggi disperse nell’inquinamento endemico che domina il mondo contemporaneo. Tuttavia, l’attenzione, sia pure soffusa e straniata, è sempre richiesta perché l’esperienza estetica sia piena e soprattutto raccontabile, forse con un nuovo vocabolario, fatto più di allusioni, metafore e simboli che di circostanziate registrazioni di ciò che è accaduto in istallazioni di questo tipo. In tal senso, le strategie fruitive in campo sembrano assimilabili a quelle dei cosiddetti sogni lucidi, nei quali l’onironauta - di cui Fëdor Michajlovič Dostoevskij già ci fornisce, in tempi non sospetti, una descrizione-, è consapevole di stare sognando, al punto da essere in grado di orientare il proprio percorso all’interno del sogno, intervenendo addirittura nella sua sceneggiatura psichica. L’esperienza è irriducibile al linguaggio descrittivo che passa attraverso i comuni sensi, o meglio si basa su un livello comunicativo in cui essi deflagrano, si dilatano allo spasimo, divenendo massimamente ricettivi a tutte le sollecitazioni provenienti da un mondo sia pur onirico, ma pur sempre un mondo. Come nel Buddhismo Mahayana in cui l’esperienza del vuoto, raggiungibile attraverso il percorso retto additato dall’ottuplice sentiero, passa attraverso i sensi ma da essi si emancipa per arrivare alla non consapevolezza dell’azione gnostica intrapresa, anche il sognatore lucido, come il corpo percepente degli artefatti contemporanei, effrange le barriere percettive. Lo spazio della vita secolare e quello dell’esperienza artistica ed architettonica sono divenuti infatti, negli ultimi decenni, domini sempre più contigui, in cui i sensi del fruitore ora sono stati messi a dura prova, iper-sollecitati dalla volontà vessatoria dell’artista-progettista; ora invece blanditi dall’atmosfera accogliente e benevolmente immersiva di installazioni o di ambienti in cui si entra nella speranza di una palingenesi globale, non solo percettiva ma spesso anche spirituale. Oltre a mettere in palese discussione i limiti delle nostre capacità sensorie, queste opere producono nuove domande, dal momento che in esse impressioni visive, acustiche e aptiche si scambiano vicendevolmente, cancellandosi o esaltandosi: sono dunque ancora validi i consolidati parametri valutativi e rappresentativi per opere che, nel loro dispiegarsi, ci interrogano su cosa stiamo vedendo, sentendo o toccando? Intrecciati ad insospettabili approcci espressivi del passato, caratterizzati da un appeal sinestetico, questi nuovi luoghi dell’esperienza si sottopongono alla nostra attenzione privi di oggetto, immagine e fuoco su cui tentare di concentrare l’attenzione: lo spazio strutturato si dissolve in un campo percettivo totale e, ricondotti alla loro più pura struttura percettiva – quasi disincarnati e ricondotti a pure casse di risonanza del mondo fenomenico esterno -, i sensi paiono perdere la capacità di descrivere il mondo. Un nuovo modo di vedere, sentire, toccare sembra allora costituire la koinè di un altrettanto nuovo modo di immaginare lo spazio, in cui i confini tra ambiente ecologico e paesaggio interiore definiscono una nuova geografia e una nuova storia.
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