Il libro si interroga sul ‘ritorno’ della ferita nell’arte della modernità avanzata come mera figura somatica, ormai svincolata dalla solida economia narrativa che l’ha accompagnata lungo la storia dell’immagine cristiana e persino dalle proiezioni simboliche tipiche della body art o dell’azionismo. Come nell’azione del 1971 in cui l’artista californiano Chris Burden, del tutto impassibile, è ferito al braccio da un colpo di fucile, così in una parte delle arti visive dagli anni Novanta e oltre, una ferita sempre più isolata, ostentata ed autonoma delinea un cortocircuito tra corpo-involucro – luogo di intellegibilità collettiva e di possibile messa in comune, sul cui volto e nei cui gesti si articolano forme passionali offerte alla condivisione – e quel sostrato biologico che chiamiamo carne, fondo in cui si dispiegano le dinamiche opache del vivente, i ritmi e le scansioni della vita nella sua mera tenuta biologica. Nella prima parte, la performance di Burden viene indagata a partire dal montaggio anacronistico con alcune fucilazioni della pittura moderna; ciò consente di cogliere un processo che è pienamente all’opera nella pittura di Manet, laddove una crisi profonda sembra investire le potenzialità espressive di un volto e di un corpo sempre più apatici, mentre gli accidenti della carne accedono via via all’orizzonte del visibile. Ciò introduce ad una definizione strutturale della ferita di cui - a partire da un’analisi lessematica - si reperiscono i tratti semici topologici e aspettuali, chiarendo l’articolazione semiotica tra ferita e involucro corporeo, un’articolazione già indagata dalla semiotica del corpo (Fontanille). La seconda parte indaga, attraverso l’analisi semiotica di un corpus di opere degli anni Novanta e oltre, le figure di un corpo ancora capace di sperimentare la non-coincidenza che lo attraversa, ovvero la disgiunzione tra il corpo come deposito identitario e luogo di intellegibilità collettiva ed il suo sostrato biologico. Lungi dal coincidere con un motivo iconografico o una figura data a priori, la ferita è allora il luogo di un’operazione che traccia la linea di giunzione e di articolazione tra corpo e carne. Più che un oggetto, un oggetto teorico che si declina in una pluralità di investimenti figurativi - dal grido, alla piega, alla piaga vera e propria – ed è indagato tracciando una costellazione di opere contemporanee ed interrogando la memoria visiva che le attraversa. La medesima disgiunzione tra corpo-involucro e carne è al centro della semantica del corpo che struttura la riflessione sulla biopolitica dell’ultimo Foucault. Ripercorrendone alcuni aspetti si indaga la possibile relazione tra le manifestazioni della ferita nell’arte tardo-moderna e quel regime biopolitico che il filosofo francese definisce come l’assunzione delle dinamiche del vivente (quell’uomo-specie che Foucault oppone all’uomo-corpo) nell’orizzonte del sapere e del potere. La terza parte, infine, prende in esame le opere di alcuni artisti nelle quali l’eccedenza della carne viene neutralizzata attraverso diverse strategie testuali, prefigurando così una ‘doppia chiusura’ (Esposito) del corpo tardomoderno.
Ferite. Il corpo e la carne nell'arte della tarda modernità
MENGONI, ANGELA
2012-01-01
Abstract
Il libro si interroga sul ‘ritorno’ della ferita nell’arte della modernità avanzata come mera figura somatica, ormai svincolata dalla solida economia narrativa che l’ha accompagnata lungo la storia dell’immagine cristiana e persino dalle proiezioni simboliche tipiche della body art o dell’azionismo. Come nell’azione del 1971 in cui l’artista californiano Chris Burden, del tutto impassibile, è ferito al braccio da un colpo di fucile, così in una parte delle arti visive dagli anni Novanta e oltre, una ferita sempre più isolata, ostentata ed autonoma delinea un cortocircuito tra corpo-involucro – luogo di intellegibilità collettiva e di possibile messa in comune, sul cui volto e nei cui gesti si articolano forme passionali offerte alla condivisione – e quel sostrato biologico che chiamiamo carne, fondo in cui si dispiegano le dinamiche opache del vivente, i ritmi e le scansioni della vita nella sua mera tenuta biologica. Nella prima parte, la performance di Burden viene indagata a partire dal montaggio anacronistico con alcune fucilazioni della pittura moderna; ciò consente di cogliere un processo che è pienamente all’opera nella pittura di Manet, laddove una crisi profonda sembra investire le potenzialità espressive di un volto e di un corpo sempre più apatici, mentre gli accidenti della carne accedono via via all’orizzonte del visibile. Ciò introduce ad una definizione strutturale della ferita di cui - a partire da un’analisi lessematica - si reperiscono i tratti semici topologici e aspettuali, chiarendo l’articolazione semiotica tra ferita e involucro corporeo, un’articolazione già indagata dalla semiotica del corpo (Fontanille). La seconda parte indaga, attraverso l’analisi semiotica di un corpus di opere degli anni Novanta e oltre, le figure di un corpo ancora capace di sperimentare la non-coincidenza che lo attraversa, ovvero la disgiunzione tra il corpo come deposito identitario e luogo di intellegibilità collettiva ed il suo sostrato biologico. Lungi dal coincidere con un motivo iconografico o una figura data a priori, la ferita è allora il luogo di un’operazione che traccia la linea di giunzione e di articolazione tra corpo e carne. Più che un oggetto, un oggetto teorico che si declina in una pluralità di investimenti figurativi - dal grido, alla piega, alla piaga vera e propria – ed è indagato tracciando una costellazione di opere contemporanee ed interrogando la memoria visiva che le attraversa. La medesima disgiunzione tra corpo-involucro e carne è al centro della semantica del corpo che struttura la riflessione sulla biopolitica dell’ultimo Foucault. Ripercorrendone alcuni aspetti si indaga la possibile relazione tra le manifestazioni della ferita nell’arte tardo-moderna e quel regime biopolitico che il filosofo francese definisce come l’assunzione delle dinamiche del vivente (quell’uomo-specie che Foucault oppone all’uomo-corpo) nell’orizzonte del sapere e del potere. La terza parte, infine, prende in esame le opere di alcuni artisti nelle quali l’eccedenza della carne viene neutralizzata attraverso diverse strategie testuali, prefigurando così una ‘doppia chiusura’ (Esposito) del corpo tardomoderno.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.