In una bellissima intervista sul numero 0 di Phalaris (1988) Canella dichiarava, parlando di se stesso e delle sue architetture, alcune cose sorprendenti: che esse non volevano in alcun modo essere antigraziose, ma che questo termine gli era rimasto appiccicato da quando, molto giovane, aveva affermato di voler fare un’architettura abbastanza brutta per rappresentare i tempi in cui viviamo. L’unica cosa che realmente non lo interessava affatto era la ricerca del consenso immediato, ricerca che invece imputava al suo vecchio amico e sodale Vittorio Gregotti, definito con sublime spietatezza culturale, dote di cui il nostro era molto fornito, “amabile, insaziabile ma conciliante”. Rivendicava inoltre di essere, per provenienza familiare, ma anche per aver percorso nella sua vita tempi senza grandi traumi (diceva della sua autobiografia che, nonostante l’epicità delle epoche attraversate, in realtà aveva avuto poca guerra e poco ’68), un tranquillo borghese, che aveva per questo la possibilità di riflettere sulle sue convinzioni fino all’ostinazione, e che gli schizzi che faceva all’università nei numerosi ex-tempore che i corsi di studio di allora proponevano, affrontavano gli stessi temi che lo avrebbero accompagnato per tutta la vita. Affermava di aver letto, in gioventù, più letteratura che architettura, e che gli insegnamenti della letteratura e della pittura sarebbero ritornati come costante biografica. Affermava soprattutto, con una modestia davvero rara e sorprendente nella sua generazione, che l’età porta una certa fossilizzazione degli interessi, e quindi si rischia di non comprendere più quello che si ha davanti, al contrario di suoi moltissimi coetanei che hanno pensato alla propria vicenda sulla terra come l’unica esperienza degna di nota nella storia universale, e alla quale l’universo mondo si doveva adattare e conformare.

Canella fuori da Milano

AYMONINO, ALDO
2014-01-01

Abstract

In una bellissima intervista sul numero 0 di Phalaris (1988) Canella dichiarava, parlando di se stesso e delle sue architetture, alcune cose sorprendenti: che esse non volevano in alcun modo essere antigraziose, ma che questo termine gli era rimasto appiccicato da quando, molto giovane, aveva affermato di voler fare un’architettura abbastanza brutta per rappresentare i tempi in cui viviamo. L’unica cosa che realmente non lo interessava affatto era la ricerca del consenso immediato, ricerca che invece imputava al suo vecchio amico e sodale Vittorio Gregotti, definito con sublime spietatezza culturale, dote di cui il nostro era molto fornito, “amabile, insaziabile ma conciliante”. Rivendicava inoltre di essere, per provenienza familiare, ma anche per aver percorso nella sua vita tempi senza grandi traumi (diceva della sua autobiografia che, nonostante l’epicità delle epoche attraversate, in realtà aveva avuto poca guerra e poco ’68), un tranquillo borghese, che aveva per questo la possibilità di riflettere sulle sue convinzioni fino all’ostinazione, e che gli schizzi che faceva all’università nei numerosi ex-tempore che i corsi di studio di allora proponevano, affrontavano gli stessi temi che lo avrebbero accompagnato per tutta la vita. Affermava di aver letto, in gioventù, più letteratura che architettura, e che gli insegnamenti della letteratura e della pittura sarebbero ritornati come costante biografica. Affermava soprattutto, con una modestia davvero rara e sorprendente nella sua generazione, che l’età porta una certa fossilizzazione degli interessi, e quindi si rischia di non comprendere più quello che si ha davanti, al contrario di suoi moltissimi coetanei che hanno pensato alla propria vicenda sulla terra come l’unica esperienza degna di nota nella storia universale, e alla quale l’universo mondo si doveva adattare e conformare.
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