L’occasione è stata l’anniversario della pubblicazione del libro di Tommaso Moro sull’utopia: da quel momento tutti a parlare e disquisire di utopie come se vivessimo in un’epoca utopica, in cui si progetta il futuro, in cui lo sguardo è rivolto verso un altrove auspicabile. Invece nulla di tutto ciò. Viviamo infatti in una delle epoche meno utopiche che si possano ricordare tanto che il termine stesso utopia è persino scomparso dal linguaggio comune, evaporato in un eterno presente assillante che ha attratto a sé il passato come se fosse un deposito da cui attingere alla svelta ciò che fa più comodo. Eppure, se c’è una cosa che abbiamo compreso negli ultimi anni di devastante ipermodernismo, tutto presente urlato, dove i cortigiani si sono affannati ad essere più realisti del re, più presenti del presente, più arroganti dell’arroganza, è che senza un’idea di futuro, senza almeno un briciolo di utopia, senza svegliarsi almeno una volta ingenui e trasognanti come il principe Minsk, la necessità stessa di architettura si rattrappisce a tal punto da scomparire. Edoardo Persico, citando San Paolo, scriveva che l’architettura è “sostanza di cose sperate”: aveva ragione. Più crudelmente si potrebbe dire che è un balsamo per le nostre frustrazioni, d’altronde sogniamo case e città non per noi, ma per coloro i quali ci sarebbe piaciuto diventare, sogniamo case per una vita nova che probabilmente mai si realizzerà. Ed è giusto che sia così, che sia umano, troppo umano. Questo numero di “Viceversa” intende essere un’indagine sull’attualità dell’utopia, su come la stessa si muova oggi in bilico tra la nostalgia di un passato in cui la stessa era plausibile e la possibilità di un futuro dove si addensano le nubi del nulla di buono. Un’ indagine collettiva per comprendere dove l’utopia oggi si ponga, se ancora una volta tra le sostanze di cose sperate o nel regno della pura immaginazione divagante. Rimane sullo sfondo della nostra indagine il mistero delle immagini, che più sono forti e affascinanti, più sono utopiche, più leniscono lo spirito e più allo stesso tempo aggravano la nostra melanconia e con essa le nostre frustrazioni. D’altronde, come scriveva Jules Renard “se si costruisse la casa della felicità la stanza più grande sarebbe la sala d’attesa”.

L'attualità dell'utopia

Valerio Paolo Mosco
2017-01-01

Abstract

L’occasione è stata l’anniversario della pubblicazione del libro di Tommaso Moro sull’utopia: da quel momento tutti a parlare e disquisire di utopie come se vivessimo in un’epoca utopica, in cui si progetta il futuro, in cui lo sguardo è rivolto verso un altrove auspicabile. Invece nulla di tutto ciò. Viviamo infatti in una delle epoche meno utopiche che si possano ricordare tanto che il termine stesso utopia è persino scomparso dal linguaggio comune, evaporato in un eterno presente assillante che ha attratto a sé il passato come se fosse un deposito da cui attingere alla svelta ciò che fa più comodo. Eppure, se c’è una cosa che abbiamo compreso negli ultimi anni di devastante ipermodernismo, tutto presente urlato, dove i cortigiani si sono affannati ad essere più realisti del re, più presenti del presente, più arroganti dell’arroganza, è che senza un’idea di futuro, senza almeno un briciolo di utopia, senza svegliarsi almeno una volta ingenui e trasognanti come il principe Minsk, la necessità stessa di architettura si rattrappisce a tal punto da scomparire. Edoardo Persico, citando San Paolo, scriveva che l’architettura è “sostanza di cose sperate”: aveva ragione. Più crudelmente si potrebbe dire che è un balsamo per le nostre frustrazioni, d’altronde sogniamo case e città non per noi, ma per coloro i quali ci sarebbe piaciuto diventare, sogniamo case per una vita nova che probabilmente mai si realizzerà. Ed è giusto che sia così, che sia umano, troppo umano. Questo numero di “Viceversa” intende essere un’indagine sull’attualità dell’utopia, su come la stessa si muova oggi in bilico tra la nostalgia di un passato in cui la stessa era plausibile e la possibilità di un futuro dove si addensano le nubi del nulla di buono. Un’ indagine collettiva per comprendere dove l’utopia oggi si ponga, se ancora una volta tra le sostanze di cose sperate o nel regno della pura immaginazione divagante. Rimane sullo sfondo della nostra indagine il mistero delle immagini, che più sono forti e affascinanti, più sono utopiche, più leniscono lo spirito e più allo stesso tempo aggravano la nostra melanconia e con essa le nostre frustrazioni. D’altronde, come scriveva Jules Renard “se si costruisse la casa della felicità la stanza più grande sarebbe la sala d’attesa”.
2017
9788862422390
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