Inserito nella collana «Narrare la scena», pubblicata dalla Casa Editrice ETS di Pisa, il volume tenta una ricostruzione storica e insieme un’interpretazione critica della genesi e della fortuna (anche televisiva) di uno dei più famosi spettacoli presentati in Italia nel secondo dopoguerra: la trasposizione teatrale dell’Orlando furioso di Ludovico Ariosto, proposta da Luca Ronconi su drammaturgia di Edoardo Sanguineti. Questi, succintamente, i contenuti dello studio. Nel rovente clima politico-culturale del dopo ’68, mentre Dario Fo conquista la penisola con Il mistero buffo e il pubblico italiano scopre Paradise Now del Living Theatre o Ferai dell’Odin Teatret, a tre anni dalla sua consacrazione a regista di grido con la messa in scena dei Lunatici, Luca Ronconi, trentaseienne enfant terrible della scena ufficiale nazionale – habitué della corte di Visconti, allievo di Costa e Squarzina, ma anche firmatario dell’appello di «Sipario» Per un convegno sul nuovo teatro (1966) –, il 4 luglio 1969 presenta al Festival di Spoleto Orlando furioso, un “travestimento” teatrale dell’omonimo poema d’Arioso firmato Edoardo Sanguineti e realizzato con la Cooperativa Teatro Libero, spettacolo destinato a diventare negli anni l’emblema delle più radicali rivoluzioni tardonovecentesche della drammaturgia dello spazio scenico. Summa della civiltà rinascimentale e compendio della narrativa del Medio Evo, sullo sfondo della mitica guerra mossa dai Mori a Carlo Magno, l’epopea ariostesca racconta in quarantasei canti in ottave «gli amori», più ancora che «l’arme», delle «donne» e dei «cavallier» coinvolti nello scontro. L’Orlando, com’è noto, ha in effetti il suo baricentro narrativo non già nel referto del conflitto tra gli infedeli e i cristiani, che pure è il motore della sua azione, quanto nel racconto della sfortunata passione di Orlando per la bella Angelica. La cronaca della pazzia amorosa del primo paladino del gran Carlo cui il poema è intitolato è però soltanto uno degli innumerevoli rivoli per cui fluisce l’epos di Ariosto, dedalo di avventure trascorrenti per cento scene e mille accidenti, in cui si rincorre una folla di personaggi. Se indiscutibilmente, con il suo insistere sul tema della follia d’amore, il Furioso pare offrire a Ronconi un materiale congeniale al suo gusto – sin dai suoi esordi teatrali egli è in effetti affascinato dalla pazzia –, l’interesse del regista per l’opera d’Ariosto sembra però più legato alle possibilità di sperimentazione linguistica che il poema gli schiude. Da subito è infatti chiaro a Ronconi come, portando in scena alla lettera la tecnica narrativa ariostesca dell’entrelacement – consistente nel tessere decine di storie in parallelo –, egli potrebbe realizzare appieno, attraverso lo sviluppo sistematico di narrazioni simultanee, quella decostruzione delle più classiche convenzioni del racconto teatrale che egli persegue sin dalle sue prime prove registiche (non per nulla spesso realizzate a partire dalle drammaturgie ad azione multipla degli elisabettiani). È significativo che, per “ridurre” ad una dimensione teatrale il poema d’Ariosto, Ronconi si rivolga a Sanguineti. Per il regista, infatti, l’Orlando dovrebbe essere uno spettacolo capace di tradurre in forme sceniche un antiromanzo come Il giuoco dell’oca (1967); si tratterebbe cioè di dar vita ad un racconto teatrale non sviluppato linearmente, ma disperso su di un piano, in cui più azioni si sviluppino in sincronia. Nelle sue prime creazioni Ronconi aveva già cercato di mostrare, attraverso vari espedienti, come più sequenze dei testi da lui allestiti, costrette a snodarsi in teatro l’una dopo l’altra, nel diagramma temporale delle loro drammaturgie fossero in realtà simultanee. Con l’Orlando questi abbozzi di sincronizzazione del racconto, condotti alle estreme conseguenze, spingono il regista ad abbandonare il palcoscenico: lo spettacolo è disseminato da Ronconi su di uno spazio neutro che accoglie indistintamente attori e spettatori ed entro il quale più scene possono dispiegarsi contemporaneamente. La rappresentazione si trasforma dunque in una carta geografica in divenire del poema d’Ariosto; a distanza di anni è infatti lo stesso regista a spiegare: «Nello spettacolo c’era una specie di mappa […], legata a considerazioni quali: “Dove si trova Orlando mentre Angelica viene portata ad Ebuda?”». Mano a mano che Ronconi va tracciando le carte geografiche del poema, Sanguineti, per confezionare la «mascheratura» teatrale dell’Orlando, per un verso ne seleziona gli episodi topici, per l’altro distilla dalle ottave ariostesche la sua drammaturgia agendo sulla coniugazione del narrare. Nel poema le zone di discorso diretto si risolvono o in sterminati monologhi ben poco “teatrali” o in rapidi scambi di battute insufficienti a comporre un copione. Per dar vita scenica ai versi del Furioso, allora, Sanguineti lascia che i personaggi, trasformandosi in cantastorie “in diretta” delle loro avventure, si assumano il racconto poematico spostandolo alla prima persona presente, nel rispetto, al possibile, del metro originale. Il distico narrativo: «Tenea Ruggier la lancia non in resta, / ma sopra mano, e percoteva l’orca» si trasforma, per esempio, nella battuta dello stesso Ruggiero: «Ora tengo la lancia non in resta, / ma sopra mano, e già percuoto l’orca». Il debutto dello spettacolo ha luogo a Spoleto, presso la chiesa di San Nicolò: un vasto locale rettangolare sui cui lati corti lo scenografo Uberto Bertacca costruisce due palcoscenici con tanto di boccascena; al centro un ring ottenuto accostando alcune piattaforme mobili. Manca ogni genere di seduta: entrando da una porta laterale, gli spettatori sono lasciati liberi di deambulare nello spazio. Il volume tenta una rievozione della messa in scena di cui sono rimaste pochissime attestazioni. Allo spegnersi delle luci, Astolfo (Duilio Del Prete), sbucando a lato di uno dei due palchi, fa la propria irruzione tra il pubblico cavalcando un destriero in lamiera montato su di un carrello manovrato a vista da alcuni colleghi ed intona l’incipit del poema. Nel solco dell’apparizione del paladino, la prima sequenza della rappresentazione, incentrata sulla fuga nei boschi di Angelica (Ottavia Piccolo), si risolve in un carosello d’inseguimenti e duelli tra cristiani e saraceni, tutti intenti a sfrecciare tra il pubblico sui loro cavalli metallici carrellati. Il risvegliarsi di Orlando (Massimo Foschi) sulla piattaforma centrale sembrerebbe restituire unità al disperso gioco scenico, ma è una breve illusione: mentre il paladino riferisce di un sogno in cui ha scorto la sua amata in pericolo, travolto dal rincorrersi dei vari cavalieri il ring su cui egli monta – composto, già lo si è detto, di praticabili a rotelle – si trasforma in una nave e Orlando salpa verso Ebuda. Assecondando l’estetica naïf e metateatrale della rappresentazione, in cui la macchina scenica è sempre denunciata come tale, i costumi, semplici e variopinti, e la stilizzata attrezzeria sono concepiti come citazioni ironiche, tra il pop, il fantasy e il varietà, dell’armamentario dei romanzi di cavalleria. Conclusasi la fuga per i boschi dei vari cavalieri, Ronconi fa alzare il sipario di uno dei due boccascena trasformando così l’ampio spazio in un teatro sui generis in cui si recita l’incontro tra Bradamante (Edmonda Aldini) e Pinabello (Pierangelo Civera). La memoria del teatro tradizionale è però evocata solo per essere negata nel suo riflesso speculare. Non appena tutto il pubblico si è assiepato davanti alla ribalta su cui agisce Bradamante, si leva infatti anche il sipario dirimpetto per dare spazio ai casi di Olimpia (Mariangela Melato). Con l’entrata in scena dell’Ippogrifo – un primitivo dolly con carcassa di cavallo alato – cavalcato da Atlante (Graziano Giusti), la polarizzazione orizzontale di questo primo blocco di scene sincroniche, in cui l’azione si è ritratta agli estremi opposti dello spazio costringendo gli spettatori a scegliere quale vicenda seguire, ruota di novanta gradi originando una contrapposizione alto/basso: il duello che va a scoppiare fra Bradamante e il mago si apre così ad un’esplorazione verticale dello spazio. Nella prosecuzione dello spettacolo l’azione si irraggia lungo le direttrici più varie (secondo una logica pulsante a sistole e diastole), spingendo ciascuno spettatore a ritagliarsi un suo viaggio all’interno della mappa/rappresentazione. Disponendosi lungo l’asse palcoscenico-piattaforma centrale-palcoscenico gli episodi sovrapposti di “Isabella”, “Angelica e l’Eremita” e “Olimpia abbandonata” tracciano una sorta di cesura longitudinale di San Nicolò. Lo scioglimento in successione delle tre scene avviate sincronicamente determina la concentrazione dell’attenzione del pubblico su di un solo punto centrale e culmina con l’uccisione dell’orca di Ebuda ad opera d’Orlando. Subito, però, la carcassa del mostro inizia a ruotare su se stessa e l’azione, come se fosse spinta dalla forza centrifuga così sviluppata, si proietta lungo l’intero perimetro della chiesa. Un sistema di praticabili allineati alle pareti lunghe di San Nicolò, in modo da congiungere i due teatrini prospicienti con due passerelle parallele, crea attorno al pubblico una piattaforma rettangolare su cui si recitano ad un tempo quattro sequenze: “Zerbino e Gabrina”, “Le femmine omicide”, “I mostri del Nilo” e “Mandricardo e Doralice”. Quasi rimbalzando contro le pareti, nella stazione successiva dello spettacolo la diaspora narrativa che aveva originato il poker di episodi appena ricordato torna a contrarsi e si capovolge in un moto centripeto condensato nella sequenza a pianta centrale del secondo castello d’Atlante. Di lì si prosegue con la battaglia di Parigi, sequenza a tutto campo in cui si consuma uno scatto determinante nello studio delle diverse possibilità di articolazione dello spazio di rappresentazione. Durante la messa in scena dell’assalto si rinuncia infatti parzialmente ai carrelli, fino a quel momento utilizzati come palcoscenici mobili, e molti attori si trovano ad agire allo stesso livello del pubblico. Anche l’ultima barriera tra interpreti e spettatori è così abbattuta. Dopo le due scene degli amori di Angelica e Medoro e della pazzia d’Orlando lo spettacolo volge a conclusione. Ai quattro angoli della chiesa si montano altrettante gabbie in cui si recitano alcune novelle del Furioso, intanto un labirinto di rete metallica invade San Nicolò, stringendo nel suo abbraccio pubblico e attori persi tra disparati brandelli di avventure del poema. Ed è su questa babele di sequenze che Astolfo, cavalcando l’Ippogrifo, si leva a volo sugli spettatori, verso il cielo della Luna, in cerca del senno di Orlando. È passata circa un’ora e mezza da quando si sono spente le luci per dare il via allo spettacolo: Orlando furioso è troncato quasi a metà, ben prima di trovare una vera soluzione, ma quando ormai tutte le funzioni del narrabile sono state messe in campo. A dispetto delle diffidenze degli organizzatori del Festival e delle riserve della critica più conservatrice, come la monografia documenta Spoleto è conquistata dal Furioso. Trionfa a Spoleto l’«Orlando» di Ronconi, titola Mosca sul «Corriere d’Informazione» il 7 luglio ’69 e, il giorno dopo, gli fa eco De Monticelli dalle colonne de «Il Giorno»: A Spoleto clamoroso successo dell’«Orlando». Che accade? La coda per vedere la prosa! La festa spoletina è però soltanto la prima tappa di una marcia vittoriosa di ben più vasta risonanza. Vinta la resistenza di Ronconi, che vorrebbe mantenere per lo spettacolo una fruizione più raccolta, già nelle settimane successive al debutto l’Orlando sbarca all’aperto sulle maggiori piazze italiane. Nel giro di pochi giorni la rappresentazione concepita per circa trecento spettatori a recita a Spoleto si trasforma in un happening popolare cui i curiosi accorrono a migliaia. La febbre del Furioso contagia anche l’estero: a settembre l’Orlando è replicato in Yugoslavia e da lì prende il via una lunga tournée internazionale chiusa nel novembre ’70 a New York. Cinque anni dopo, la riduzione televisiva del Furioso, sempre diretta da Ronconi, propone una ricerca geniale sulle possibilità di interazione tra linguaggio teatrale e linguaggio video, ma l’Orlando TV, riconducendo la policentrica kermesse di Spoleto all’alveo di un racconto lineare, è ormai una creazione artistica del tutto estranea all’evento cui è ispirata. A ben vedere dall’analisi del Furioso teatrale proposta nel volume è possibile arguire ab origine i fondamenti stessi della poetica ronconiana. Innanzitutto la messa in scena documenta la precoce curiosità del regista per le modalità fruitive del pubblico; in particolare, costringendo gli spettatori a scegliere un percorso all’interno della rappresentazione, l’Orlando mostra come sempre, per Ronconi, uno spettacolo (anche il più convenzionale) sia frutto di una ri-creazione soggettiva dello spettatore portato, in virtù della discontinuità della sua attenzione e della tendenza fisiologica dell’uomo a focalizzare lo sguardo e l’ascolto, a smontare il materiale che gli viene proposto con la rappresentazione per poi rimontarlo soggettivamente nella moviola del ricordo. In secondo luogo la trasposizione teatrale del poema, denunciando il disagio del regista a fronte del bon ton attoriale italiano borghese, prospetta una nuova tecnica di recitazione antiaccademica. Desunto dalla sofisticata ricerca metrica di Ariosto, teso al sondaggio delle aberrazioni della follia, ma al tempo stesso frutto di un’operazione drammaturgica di radicale depsicologizzazione dei personaggi, il Furioso propone in effetti una recitazione spezzata e antinaturalistica, attenta allo scandaglio della parola, ma anche violentemente fisica, che sarà poi cara al Ronconi della maturità. L’Orlando chiarisce inoltre come per il giovane maestro, in un’ottica decisamente strutturalista, l’articolazione dello spazio rappresentativo sia sempre il correlato oggettivo dell’architettura drammaturgica del copione. Maturata a partire dalla ricognizione planimetrica del poema, la scelta di rappresentare il Furioso fuori dai palcoscenici tradizionali non scaturisce infatti da quel rifiuto ideologico del teatro borghese così diffuso a cavallo tra anni Sessanta e Settanta del Novecento, bensì dalla convinzione ronconiana che «ogni testo abbia un suo spazio». Ed infine, come la monografia si sforza di dimostrare, l’Orlando teatrale traccia, soprattutto, il perimetro dell’idea stessa di regia di Ronconi, prefigurando ad un tempo il suo prototipo di spettacolo. Nato dalla traduzione teatrale dello sconfinato poema d’Ariosto, Orlando furioso è infatti l’exemplum di come Ronconi legga nel DNA della regia un’irrefrenabile vocazione ad assumere responsabilità drammaturgiche e di come la sua estetica, in sostanziale affinità con le figure della dilatazione e della dispersione che informano la cultura contemporanea, tenda ad uno spettacolo-monstrum, sottratto alla comprensione totale dello spettatore che lo attraversa.
«Orlando furioso» di Ariosto-Sanguineti per Luca Ronconi
LONGHI, CLAUDIO
2006-01-01
Abstract
Inserito nella collana «Narrare la scena», pubblicata dalla Casa Editrice ETS di Pisa, il volume tenta una ricostruzione storica e insieme un’interpretazione critica della genesi e della fortuna (anche televisiva) di uno dei più famosi spettacoli presentati in Italia nel secondo dopoguerra: la trasposizione teatrale dell’Orlando furioso di Ludovico Ariosto, proposta da Luca Ronconi su drammaturgia di Edoardo Sanguineti. Questi, succintamente, i contenuti dello studio. Nel rovente clima politico-culturale del dopo ’68, mentre Dario Fo conquista la penisola con Il mistero buffo e il pubblico italiano scopre Paradise Now del Living Theatre o Ferai dell’Odin Teatret, a tre anni dalla sua consacrazione a regista di grido con la messa in scena dei Lunatici, Luca Ronconi, trentaseienne enfant terrible della scena ufficiale nazionale – habitué della corte di Visconti, allievo di Costa e Squarzina, ma anche firmatario dell’appello di «Sipario» Per un convegno sul nuovo teatro (1966) –, il 4 luglio 1969 presenta al Festival di Spoleto Orlando furioso, un “travestimento” teatrale dell’omonimo poema d’Arioso firmato Edoardo Sanguineti e realizzato con la Cooperativa Teatro Libero, spettacolo destinato a diventare negli anni l’emblema delle più radicali rivoluzioni tardonovecentesche della drammaturgia dello spazio scenico. Summa della civiltà rinascimentale e compendio della narrativa del Medio Evo, sullo sfondo della mitica guerra mossa dai Mori a Carlo Magno, l’epopea ariostesca racconta in quarantasei canti in ottave «gli amori», più ancora che «l’arme», delle «donne» e dei «cavallier» coinvolti nello scontro. L’Orlando, com’è noto, ha in effetti il suo baricentro narrativo non già nel referto del conflitto tra gli infedeli e i cristiani, che pure è il motore della sua azione, quanto nel racconto della sfortunata passione di Orlando per la bella Angelica. La cronaca della pazzia amorosa del primo paladino del gran Carlo cui il poema è intitolato è però soltanto uno degli innumerevoli rivoli per cui fluisce l’epos di Ariosto, dedalo di avventure trascorrenti per cento scene e mille accidenti, in cui si rincorre una folla di personaggi. Se indiscutibilmente, con il suo insistere sul tema della follia d’amore, il Furioso pare offrire a Ronconi un materiale congeniale al suo gusto – sin dai suoi esordi teatrali egli è in effetti affascinato dalla pazzia –, l’interesse del regista per l’opera d’Ariosto sembra però più legato alle possibilità di sperimentazione linguistica che il poema gli schiude. Da subito è infatti chiaro a Ronconi come, portando in scena alla lettera la tecnica narrativa ariostesca dell’entrelacement – consistente nel tessere decine di storie in parallelo –, egli potrebbe realizzare appieno, attraverso lo sviluppo sistematico di narrazioni simultanee, quella decostruzione delle più classiche convenzioni del racconto teatrale che egli persegue sin dalle sue prime prove registiche (non per nulla spesso realizzate a partire dalle drammaturgie ad azione multipla degli elisabettiani). È significativo che, per “ridurre” ad una dimensione teatrale il poema d’Ariosto, Ronconi si rivolga a Sanguineti. Per il regista, infatti, l’Orlando dovrebbe essere uno spettacolo capace di tradurre in forme sceniche un antiromanzo come Il giuoco dell’oca (1967); si tratterebbe cioè di dar vita ad un racconto teatrale non sviluppato linearmente, ma disperso su di un piano, in cui più azioni si sviluppino in sincronia. Nelle sue prime creazioni Ronconi aveva già cercato di mostrare, attraverso vari espedienti, come più sequenze dei testi da lui allestiti, costrette a snodarsi in teatro l’una dopo l’altra, nel diagramma temporale delle loro drammaturgie fossero in realtà simultanee. Con l’Orlando questi abbozzi di sincronizzazione del racconto, condotti alle estreme conseguenze, spingono il regista ad abbandonare il palcoscenico: lo spettacolo è disseminato da Ronconi su di uno spazio neutro che accoglie indistintamente attori e spettatori ed entro il quale più scene possono dispiegarsi contemporaneamente. La rappresentazione si trasforma dunque in una carta geografica in divenire del poema d’Ariosto; a distanza di anni è infatti lo stesso regista a spiegare: «Nello spettacolo c’era una specie di mappa […], legata a considerazioni quali: “Dove si trova Orlando mentre Angelica viene portata ad Ebuda?”». Mano a mano che Ronconi va tracciando le carte geografiche del poema, Sanguineti, per confezionare la «mascheratura» teatrale dell’Orlando, per un verso ne seleziona gli episodi topici, per l’altro distilla dalle ottave ariostesche la sua drammaturgia agendo sulla coniugazione del narrare. Nel poema le zone di discorso diretto si risolvono o in sterminati monologhi ben poco “teatrali” o in rapidi scambi di battute insufficienti a comporre un copione. Per dar vita scenica ai versi del Furioso, allora, Sanguineti lascia che i personaggi, trasformandosi in cantastorie “in diretta” delle loro avventure, si assumano il racconto poematico spostandolo alla prima persona presente, nel rispetto, al possibile, del metro originale. Il distico narrativo: «Tenea Ruggier la lancia non in resta, / ma sopra mano, e percoteva l’orca» si trasforma, per esempio, nella battuta dello stesso Ruggiero: «Ora tengo la lancia non in resta, / ma sopra mano, e già percuoto l’orca». Il debutto dello spettacolo ha luogo a Spoleto, presso la chiesa di San Nicolò: un vasto locale rettangolare sui cui lati corti lo scenografo Uberto Bertacca costruisce due palcoscenici con tanto di boccascena; al centro un ring ottenuto accostando alcune piattaforme mobili. Manca ogni genere di seduta: entrando da una porta laterale, gli spettatori sono lasciati liberi di deambulare nello spazio. Il volume tenta una rievozione della messa in scena di cui sono rimaste pochissime attestazioni. Allo spegnersi delle luci, Astolfo (Duilio Del Prete), sbucando a lato di uno dei due palchi, fa la propria irruzione tra il pubblico cavalcando un destriero in lamiera montato su di un carrello manovrato a vista da alcuni colleghi ed intona l’incipit del poema. Nel solco dell’apparizione del paladino, la prima sequenza della rappresentazione, incentrata sulla fuga nei boschi di Angelica (Ottavia Piccolo), si risolve in un carosello d’inseguimenti e duelli tra cristiani e saraceni, tutti intenti a sfrecciare tra il pubblico sui loro cavalli metallici carrellati. Il risvegliarsi di Orlando (Massimo Foschi) sulla piattaforma centrale sembrerebbe restituire unità al disperso gioco scenico, ma è una breve illusione: mentre il paladino riferisce di un sogno in cui ha scorto la sua amata in pericolo, travolto dal rincorrersi dei vari cavalieri il ring su cui egli monta – composto, già lo si è detto, di praticabili a rotelle – si trasforma in una nave e Orlando salpa verso Ebuda. Assecondando l’estetica naïf e metateatrale della rappresentazione, in cui la macchina scenica è sempre denunciata come tale, i costumi, semplici e variopinti, e la stilizzata attrezzeria sono concepiti come citazioni ironiche, tra il pop, il fantasy e il varietà, dell’armamentario dei romanzi di cavalleria. Conclusasi la fuga per i boschi dei vari cavalieri, Ronconi fa alzare il sipario di uno dei due boccascena trasformando così l’ampio spazio in un teatro sui generis in cui si recita l’incontro tra Bradamante (Edmonda Aldini) e Pinabello (Pierangelo Civera). La memoria del teatro tradizionale è però evocata solo per essere negata nel suo riflesso speculare. Non appena tutto il pubblico si è assiepato davanti alla ribalta su cui agisce Bradamante, si leva infatti anche il sipario dirimpetto per dare spazio ai casi di Olimpia (Mariangela Melato). Con l’entrata in scena dell’Ippogrifo – un primitivo dolly con carcassa di cavallo alato – cavalcato da Atlante (Graziano Giusti), la polarizzazione orizzontale di questo primo blocco di scene sincroniche, in cui l’azione si è ritratta agli estremi opposti dello spazio costringendo gli spettatori a scegliere quale vicenda seguire, ruota di novanta gradi originando una contrapposizione alto/basso: il duello che va a scoppiare fra Bradamante e il mago si apre così ad un’esplorazione verticale dello spazio. Nella prosecuzione dello spettacolo l’azione si irraggia lungo le direttrici più varie (secondo una logica pulsante a sistole e diastole), spingendo ciascuno spettatore a ritagliarsi un suo viaggio all’interno della mappa/rappresentazione. Disponendosi lungo l’asse palcoscenico-piattaforma centrale-palcoscenico gli episodi sovrapposti di “Isabella”, “Angelica e l’Eremita” e “Olimpia abbandonata” tracciano una sorta di cesura longitudinale di San Nicolò. Lo scioglimento in successione delle tre scene avviate sincronicamente determina la concentrazione dell’attenzione del pubblico su di un solo punto centrale e culmina con l’uccisione dell’orca di Ebuda ad opera d’Orlando. Subito, però, la carcassa del mostro inizia a ruotare su se stessa e l’azione, come se fosse spinta dalla forza centrifuga così sviluppata, si proietta lungo l’intero perimetro della chiesa. Un sistema di praticabili allineati alle pareti lunghe di San Nicolò, in modo da congiungere i due teatrini prospicienti con due passerelle parallele, crea attorno al pubblico una piattaforma rettangolare su cui si recitano ad un tempo quattro sequenze: “Zerbino e Gabrina”, “Le femmine omicide”, “I mostri del Nilo” e “Mandricardo e Doralice”. Quasi rimbalzando contro le pareti, nella stazione successiva dello spettacolo la diaspora narrativa che aveva originato il poker di episodi appena ricordato torna a contrarsi e si capovolge in un moto centripeto condensato nella sequenza a pianta centrale del secondo castello d’Atlante. Di lì si prosegue con la battaglia di Parigi, sequenza a tutto campo in cui si consuma uno scatto determinante nello studio delle diverse possibilità di articolazione dello spazio di rappresentazione. Durante la messa in scena dell’assalto si rinuncia infatti parzialmente ai carrelli, fino a quel momento utilizzati come palcoscenici mobili, e molti attori si trovano ad agire allo stesso livello del pubblico. Anche l’ultima barriera tra interpreti e spettatori è così abbattuta. Dopo le due scene degli amori di Angelica e Medoro e della pazzia d’Orlando lo spettacolo volge a conclusione. Ai quattro angoli della chiesa si montano altrettante gabbie in cui si recitano alcune novelle del Furioso, intanto un labirinto di rete metallica invade San Nicolò, stringendo nel suo abbraccio pubblico e attori persi tra disparati brandelli di avventure del poema. Ed è su questa babele di sequenze che Astolfo, cavalcando l’Ippogrifo, si leva a volo sugli spettatori, verso il cielo della Luna, in cerca del senno di Orlando. È passata circa un’ora e mezza da quando si sono spente le luci per dare il via allo spettacolo: Orlando furioso è troncato quasi a metà, ben prima di trovare una vera soluzione, ma quando ormai tutte le funzioni del narrabile sono state messe in campo. A dispetto delle diffidenze degli organizzatori del Festival e delle riserve della critica più conservatrice, come la monografia documenta Spoleto è conquistata dal Furioso. Trionfa a Spoleto l’«Orlando» di Ronconi, titola Mosca sul «Corriere d’Informazione» il 7 luglio ’69 e, il giorno dopo, gli fa eco De Monticelli dalle colonne de «Il Giorno»: A Spoleto clamoroso successo dell’«Orlando». Che accade? La coda per vedere la prosa! La festa spoletina è però soltanto la prima tappa di una marcia vittoriosa di ben più vasta risonanza. Vinta la resistenza di Ronconi, che vorrebbe mantenere per lo spettacolo una fruizione più raccolta, già nelle settimane successive al debutto l’Orlando sbarca all’aperto sulle maggiori piazze italiane. Nel giro di pochi giorni la rappresentazione concepita per circa trecento spettatori a recita a Spoleto si trasforma in un happening popolare cui i curiosi accorrono a migliaia. La febbre del Furioso contagia anche l’estero: a settembre l’Orlando è replicato in Yugoslavia e da lì prende il via una lunga tournée internazionale chiusa nel novembre ’70 a New York. Cinque anni dopo, la riduzione televisiva del Furioso, sempre diretta da Ronconi, propone una ricerca geniale sulle possibilità di interazione tra linguaggio teatrale e linguaggio video, ma l’Orlando TV, riconducendo la policentrica kermesse di Spoleto all’alveo di un racconto lineare, è ormai una creazione artistica del tutto estranea all’evento cui è ispirata. A ben vedere dall’analisi del Furioso teatrale proposta nel volume è possibile arguire ab origine i fondamenti stessi della poetica ronconiana. Innanzitutto la messa in scena documenta la precoce curiosità del regista per le modalità fruitive del pubblico; in particolare, costringendo gli spettatori a scegliere un percorso all’interno della rappresentazione, l’Orlando mostra come sempre, per Ronconi, uno spettacolo (anche il più convenzionale) sia frutto di una ri-creazione soggettiva dello spettatore portato, in virtù della discontinuità della sua attenzione e della tendenza fisiologica dell’uomo a focalizzare lo sguardo e l’ascolto, a smontare il materiale che gli viene proposto con la rappresentazione per poi rimontarlo soggettivamente nella moviola del ricordo. In secondo luogo la trasposizione teatrale del poema, denunciando il disagio del regista a fronte del bon ton attoriale italiano borghese, prospetta una nuova tecnica di recitazione antiaccademica. Desunto dalla sofisticata ricerca metrica di Ariosto, teso al sondaggio delle aberrazioni della follia, ma al tempo stesso frutto di un’operazione drammaturgica di radicale depsicologizzazione dei personaggi, il Furioso propone in effetti una recitazione spezzata e antinaturalistica, attenta allo scandaglio della parola, ma anche violentemente fisica, che sarà poi cara al Ronconi della maturità. L’Orlando chiarisce inoltre come per il giovane maestro, in un’ottica decisamente strutturalista, l’articolazione dello spazio rappresentativo sia sempre il correlato oggettivo dell’architettura drammaturgica del copione. Maturata a partire dalla ricognizione planimetrica del poema, la scelta di rappresentare il Furioso fuori dai palcoscenici tradizionali non scaturisce infatti da quel rifiuto ideologico del teatro borghese così diffuso a cavallo tra anni Sessanta e Settanta del Novecento, bensì dalla convinzione ronconiana che «ogni testo abbia un suo spazio». Ed infine, come la monografia si sforza di dimostrare, l’Orlando teatrale traccia, soprattutto, il perimetro dell’idea stessa di regia di Ronconi, prefigurando ad un tempo il suo prototipo di spettacolo. Nato dalla traduzione teatrale dello sconfinato poema d’Ariosto, Orlando furioso è infatti l’exemplum di come Ronconi legga nel DNA della regia un’irrefrenabile vocazione ad assumere responsabilità drammaturgiche e di come la sua estetica, in sostanziale affinità con le figure della dilatazione e della dispersione che informano la cultura contemporanea, tenda ad uno spettacolo-monstrum, sottratto alla comprensione totale dello spettatore che lo attraversa.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.