Quando si debba intraprendere un discorso critico sui rapporti tra disegno e progetto di architettura, lo storico della rappresentazione (almeno quello di questo evo) individua la sua Stele di Rosetta in una serie di contributi che hanno sviluppato il tema nel corso del secolo appena trascorso. Fra tutti, svetta il saggio redatto nel 1986 da Robin Evans (1944 – 1993) dal titolo apodittico Translations from drawing to building1 nel quale lo studioso inglese esamina i complessi rapporti che si instaurano tra il momento dell’ideazione del progetto di architettura e la sua edificazione. Inserendo l’architettura nel novero delle arti, Evans sottolinea l’ampio divario esistente fra alcune di queste: segnatamente, per la pittura e la scultura la distanza che separa il momento dell’abbozzo grafico dell’idea dalla sua fisica realizzazione è spesso brevissimo, se non istantaneo in alcuni casi. Per l’architettura invece questo gap diventa abissale, oceanico e spesso incolmabile, tutti noi sapendo (per esperienza professionale, diretta o indiretta) quali e quanti siano gli ostacoli burocratici, logistici e iletici che si frappongono tra il momento dell’ideazione grafica e la sua concreta attuazione. Evans usa in particolare il verbo ‘tradurre’ per indicare questo moto che dal disegno conduce all’opera, analizzandone l’etimo che per l’autore è da ricondurre al latino translatio, “condurre da un posto all’altro”2. Evans precisa che il moto traduttivo palesemente implica che qualcosa si perda in questo movimento, osservando che «…certe cose si possono deformare, spezzare o perdere cammin facendo.

Tradimenti dal disegno all’edificio

De Rosa, Agostino
2019-01-01

Abstract

Quando si debba intraprendere un discorso critico sui rapporti tra disegno e progetto di architettura, lo storico della rappresentazione (almeno quello di questo evo) individua la sua Stele di Rosetta in una serie di contributi che hanno sviluppato il tema nel corso del secolo appena trascorso. Fra tutti, svetta il saggio redatto nel 1986 da Robin Evans (1944 – 1993) dal titolo apodittico Translations from drawing to building1 nel quale lo studioso inglese esamina i complessi rapporti che si instaurano tra il momento dell’ideazione del progetto di architettura e la sua edificazione. Inserendo l’architettura nel novero delle arti, Evans sottolinea l’ampio divario esistente fra alcune di queste: segnatamente, per la pittura e la scultura la distanza che separa il momento dell’abbozzo grafico dell’idea dalla sua fisica realizzazione è spesso brevissimo, se non istantaneo in alcuni casi. Per l’architettura invece questo gap diventa abissale, oceanico e spesso incolmabile, tutti noi sapendo (per esperienza professionale, diretta o indiretta) quali e quanti siano gli ostacoli burocratici, logistici e iletici che si frappongono tra il momento dell’ideazione grafica e la sua concreta attuazione. Evans usa in particolare il verbo ‘tradurre’ per indicare questo moto che dal disegno conduce all’opera, analizzandone l’etimo che per l’autore è da ricondurre al latino translatio, “condurre da un posto all’altro”2. Evans precisa che il moto traduttivo palesemente implica che qualcosa si perda in questo movimento, osservando che «…certe cose si possono deformare, spezzare o perdere cammin facendo.
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