Scarsity e abundance sono due parole intorno alle quali ruota un in- teresse multidisciplinare, dalla psicologia, alla teoria dei giochi, all’antropologia culturale, alla filosofia, alle teorie sulle organizzazioni economiche. Achterhuis (1988) suggerisce che nel mondo occidentale l'uomo si confronta con “l’abbondanza”, ma sperimenta tutto il contrario: C'è l'opulenza di abbondanza, ma allo stesso tempo il disagio della scarsità. Egli si riferisce, quindi, a una sensazione che "it is never enough", le scelte sono così tante per cui siamo immersi in una permanente sensazione di scarsità. Pensare in termini di “scarsità” e “abbondanza” può essere considerato come un continuum con due estremi. Questi ultimi sono costituiti da due paradigmi contraddittori circa la distribuzione naturale delle risorse (materiali e immateriali) sulla terra. La scarsità si fonda sul principio che tutte le risorse sono già esistenti, e sono scarse, e che le scelte riguardano il come allocarle. È evidente che, oggi, il confronto dell’uomo con il territorio si basa sul “paradigma” della scarsità; la stessa parola economia, deriva dalla parola greca οικονο%ία, la quale contiene non solo la "gestione di una casa o di famiglia", ma anche un senso di "parsimonia”. Un approccio molto diverso è quello di Feyerabend (1999) con la sua teoria sulla “Conquest of Abundance”, in cui suggerisce agli individui di “conquistare abbondanza” e di gestirla con gli altri, attraverso la creazione di organizzazioni. Il concetto di “abbondanza” si riferisce alla disponibilità illimitata di possibilità, per mezzo delle quali tutti i bisogni attuali delle persone possono essere soddisfatti, attraverso la costruzione di strategie di produzione fondate su principi di cooperazione tra i vari attori del processo (Del Nord, 2011), sulla disponibilità di tutti i soggetti coinvolti di attivare virtuose cooperazioni nell’organizzazione di filiere costruttive locali (Campioli, 2011). Secondo questa teoria non esiste più la separa- zione tra produttori e consumatori, ma si parla oggi di Producer, il cittadino diventa responsabile dello spazio che vive, e si organizza per “fare” in prima persona lo spazio. Questo apre a una cultura del progettare e del costruire che ha come punto di forza il riferimento a ciò che nella ricerca sociologica e antropologica è stata recentemente definita come “intelligenza collettiva” (Lévy, 1994). A tal proposito, Jane Jacobs ha scritto che, quello di cui più necessitano le nostre città “è una più ricca e complessa diversità e un maggior numero di funzioni capaci di interagire”, aggiungendo che tale diversità non può essere creata se non grazie all’incredibile numero di individui ed organizzazioni, con idee e obiettivi diversificati, che progettano e agiscono al di fuori delle strutture ufficiali. Per buona parte della storia, la trasformazione dell’ambiente è stata parte integrante della vita della gente, gli abitanti erano infatti in contatto l’uno con l’atro e la conoscenza della vita della comunità, della sua cultura e del suo territorio, li rendeva tutti “progettisti” e capaci di comprendere i significati del costruire in tutti i suoi aspetti. Oggi la tendenza all’omologazione nella trasformazione del territorio, fa si che gli interventi urbani siano intrapresi da soggetti che non fanno parte della collettività per cui si sta progettando, ne consegue che i veri bisogni degli abitanti rimangono spesso inespressi, così come il senso di comunità e l’appartenenza a un luogo che sono elementi essenziali nella costituzione di una città sostenibile.

Cultura del fare città: i paradigmi della partecipazione nel processo di rigenerazione

Cellucci, Cristiana
2016-01-01

Abstract

Scarsity e abundance sono due parole intorno alle quali ruota un in- teresse multidisciplinare, dalla psicologia, alla teoria dei giochi, all’antropologia culturale, alla filosofia, alle teorie sulle organizzazioni economiche. Achterhuis (1988) suggerisce che nel mondo occidentale l'uomo si confronta con “l’abbondanza”, ma sperimenta tutto il contrario: C'è l'opulenza di abbondanza, ma allo stesso tempo il disagio della scarsità. Egli si riferisce, quindi, a una sensazione che "it is never enough", le scelte sono così tante per cui siamo immersi in una permanente sensazione di scarsità. Pensare in termini di “scarsità” e “abbondanza” può essere considerato come un continuum con due estremi. Questi ultimi sono costituiti da due paradigmi contraddittori circa la distribuzione naturale delle risorse (materiali e immateriali) sulla terra. La scarsità si fonda sul principio che tutte le risorse sono già esistenti, e sono scarse, e che le scelte riguardano il come allocarle. È evidente che, oggi, il confronto dell’uomo con il territorio si basa sul “paradigma” della scarsità; la stessa parola economia, deriva dalla parola greca οικονο%ία, la quale contiene non solo la "gestione di una casa o di famiglia", ma anche un senso di "parsimonia”. Un approccio molto diverso è quello di Feyerabend (1999) con la sua teoria sulla “Conquest of Abundance”, in cui suggerisce agli individui di “conquistare abbondanza” e di gestirla con gli altri, attraverso la creazione di organizzazioni. Il concetto di “abbondanza” si riferisce alla disponibilità illimitata di possibilità, per mezzo delle quali tutti i bisogni attuali delle persone possono essere soddisfatti, attraverso la costruzione di strategie di produzione fondate su principi di cooperazione tra i vari attori del processo (Del Nord, 2011), sulla disponibilità di tutti i soggetti coinvolti di attivare virtuose cooperazioni nell’organizzazione di filiere costruttive locali (Campioli, 2011). Secondo questa teoria non esiste più la separa- zione tra produttori e consumatori, ma si parla oggi di Producer, il cittadino diventa responsabile dello spazio che vive, e si organizza per “fare” in prima persona lo spazio. Questo apre a una cultura del progettare e del costruire che ha come punto di forza il riferimento a ciò che nella ricerca sociologica e antropologica è stata recentemente definita come “intelligenza collettiva” (Lévy, 1994). A tal proposito, Jane Jacobs ha scritto che, quello di cui più necessitano le nostre città “è una più ricca e complessa diversità e un maggior numero di funzioni capaci di interagire”, aggiungendo che tale diversità non può essere creata se non grazie all’incredibile numero di individui ed organizzazioni, con idee e obiettivi diversificati, che progettano e agiscono al di fuori delle strutture ufficiali. Per buona parte della storia, la trasformazione dell’ambiente è stata parte integrante della vita della gente, gli abitanti erano infatti in contatto l’uno con l’atro e la conoscenza della vita della comunità, della sua cultura e del suo territorio, li rendeva tutti “progettisti” e capaci di comprendere i significati del costruire in tutti i suoi aspetti. Oggi la tendenza all’omologazione nella trasformazione del territorio, fa si che gli interventi urbani siano intrapresi da soggetti che non fanno parte della collettività per cui si sta progettando, ne consegue che i veri bisogni degli abitanti rimangono spesso inespressi, così come il senso di comunità e l’appartenenza a un luogo che sono elementi essenziali nella costituzione di una città sostenibile.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11578/308943
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