1. Profilo dell’attrice Marisa Fabbri nasce a Firenze il 15 agosto 1927 e fin da bambina dimostra una spiccata propensione per il teatro. Dopo il diploma di recitazione conseguito presso la Scuola di Arte Drammatica di via Laura a Firenze, nel capoluogo toscano la sua formazione scenica viene maturandosi a stretto contatto con il mondo delle filodrammatiche e, soprattutto, del teatro universitario: è infatti tra le più attive animatrici del Teatro delle Arti, diretto da Athos Ori, gruppo legato all’Ateneo fiorentino. In realtà la Fabbri, per sua natura portata a concepire la vita come un lungo viaggio di conoscenza, continuerà un suo autonomo percorso di formazione per tutto l’arco della sua lunga carriera. Fin dalla giovinezza il punto di riferimento teatrale dell’attrice è Bertolt Brecht, conosciuto attraverso i testi che nel dopoguerra cominciano a circolare in Italia: al di là della lezione tecnica, da Brecht la Fabbri mutua la convinzione, per lei fondamentale, che nella vita di un attore l’esercizio dell’arte non possa andare scisso dal profondo impegno civile e politico. Dopo un primo isolato appuntamento con De Bosio a Padova (Sei personaggi in cerca d’autore, 1952), l’occasione per uscire da Firenze arriva dal Teatro S. Erasmo di Milano: Carlo Lari la vuole tra gli interpreti di Gallina vecchia di Augusto Novelli con Lola Braccini (1954). Trascorse alcune stagioni al S. Erasmo, Marisa passa al nuovo Teatro del Convegno di Enzo Ferrieri, dove rimane fino alla fine degli anni Cinquanta. All’inizio del decennio successivo la Fabbri viene scritturata dal Teatro Stabile della Città di Trieste: lì l’attrice ha l’occasione di interpretare testi di Brecht (Un uomo è un uomo, 1963), lavora con Fulvio Tolusso e soprattutto incontra Aldo Trionfo (La storia di Vasco, 1963; Dialoghi con Leucò, 1964; Vinzenz e l’amica degli uomini importanti, 1964). Nel 1966 la svolta: in agosto Marisa debutta nei Lunatici, con la coppia Fantoni-Fortunato, per la regia di Luca Ronconi e a novembre, coronando il sogno della sua vita, è chiamata da Strehler, da lei considerato da sempre il Maestro, per la sua nuova edizione de I giganti della montagna. Il rapporto con Strehler si consumerà nel volgere di poche stagioni: la Fabbri segue il regista nell’avventura del Gruppo Teatro e Azione – Cantata di un mostro Lusitano, 1969; Nel fondo, 1970; Referendum per l’assoluzione o la condanna di un criminale di guerra (Walter Reder), 1971 –, ma dopo l’ultimo spettacolo della formazione interrompe i contatti con lui. Ben altro respiro ha invece l’incontro con Ronconi: al primo appuntamento dei Lunatici fanno infatti seguito una lunga serie di interpretazioni memorabili; tra tutte: la regina Elisabetta in Riccardo III (1968), Clitemnestra ne l’Orestea (1972), la straordinaria restituzione delle Baccanti a Prato, in cui l’attrice recita tutti i ‘personaggi’ (1978), Ludwig Adrian Brodersen in Ignorabimus (1986), la signora Lidoine ne I dialoghi delle Carmelitane (1988), Olga in Tre sorelle (1989), la signora Wahnschaffe ne Gli ultimi giorni dell’umanità (1990), il magistrale cammeo di Seth ne Il lutto si addice ad Elettra (1997). Oltre ad una pioggia di riconoscimenti, questa lunga serie di spettacoli, in tandem col grande regista, ormai divenuto suo interlocutore ideale, valgono alla Fabbri la qualifica, denigratoria per taluni, laudativa per lei, di attrice ‘ronconiana’ per eccellenza. Coniugando sapientemente strutturalismo, brechtismo, lezione strehleriana, passione per le letture e accesa militanza politica, lavorando con Ronconi la Fabbri arriva a mettere definitivamente a punto il suo paradigma metodologico dell’attore come «scrittura vivente», marchio indelebile del suo stile inconfondibile e anticonvenzionale. La pur fortissima relazione con Ronconi non monopolizza integralmente Marisa, che continua ad alimentare la sua crescita collaborando negli anni Settanta con il Gruppo Lavoro di Teatro, insieme al compagno Paolo Modugno (Comedia per Venezia, 1973; Ti ricordi domani?, 1975; 53 + 68 = 76, 1976), e cimentandosi, nei decenni successivi, con sempre nuovi registi: da Cherif (Pièce noire, 1987) a Cobelli (I parenti terribili, 1991), da Tiezzi (Conversazione per passare la notte, 1995) a Mauro Avogadro (Il dolore, 1997) e a Barbara Nativi (Io, Paola, la commediante, 2000). Intensa, soprattutto negli anni novanta, la sua attività di monologante (Dall’opaco, 1990; il monologo dello Spirito della Madre da Bestia da Stile, 1991) in cui prende appieno corpo il suo accanito lavoro sul linguaggio. Non paga del suo essere solo attrice, la Fabbri sperimenta nel tempo anche la regia (Inaugurazione, 1981) e soprattutto l’insegnamento, attività importantissima negli ultimi venti anni della sua carriera: dall’anno scolastico 1982-1983, Marisa, chiamata da Trionfo, avvia la sua collaborazione in qualità di docente con l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico, cui si affiancherà negli anni novanta il lavoro presso la Scuola del Teatro Stabile di Torino sotto l’egida di Ronconi. In campo teatrale doveroso ricordare pure l’impegno profuso a vari livelli dall’attrice per il sostegno alla nuova drammaturgia. Non secondaria, anche se ridotta, la sua attività cinematografica (ad esempio: Sacco e Vanzetti di Montaldo, 1971; 4 mosche di velluto grigio di Dario Argento, 1971; Milarepa della Cavani, 1974; Gli Astronomi di Ronsisvalle, 2002), televisiva (notevole in particolare il John Gabriel Borkman diretto da Ronconi, 1982) e soprattutto radiofonica (si ricordino almeno: Il comunista, 1977; Mitosi, 1992; L’abominevole donna delle nevi, 1997; Alcesti di Samuele, 1998). Marisa Fabbri si è spenta a Roma il 10 giugno 2003. 2. Contenuti del volume Muovendo dal racconto del lungo viaggio di Marisa Fabbri attraverso il teatro, scandito attraverso le differenti tappe della formazione e della successiva affermazione professionale dell’attrice, lo studio si è proposto ad un tempo di tracciare un primo bilancio storico-critico dell’esperienza fabbriana e di tentare un’interpretazione d’insieme del teatro italiano del secondo Novecento, formulata dal punto di vista dell’attore. Inquadrandosi in un impianto a doppio binario che affianca e giustappone il piano della ricerca biografica a quello della riflessione storica più lata, nel corso della monografia la ricostruzione dell’iniziazione alla scena della Fabbri attraverso i circuiti delle filodrammatiche e del teatro universitario fiorentino, la rievocazione del passaggio dell’attrice a Milano negli anni Cinquanta – tra Teatro Sant’Erasmo e Nuovo Teatro del Convegno – e del suo approdo al teatro Stabile di Trieste nel decennio successivo, lo studio del suo apprendistato e dei suoi successi al fianco di grandi maestri come Trionfo, Strehler e Ronconi (ma anche di figure di indubbio interesse come Bolchi, Cobelli, De Bosio, Tiezzi, Cherif o la Nativi) e del suo ‘engagement’ nei gruppi ‘Teatro e Azione’ prima e ‘Lavoro di Teatro’ poi, il regesto delle sue non poche avventure televisive, cinematografiche e soprattutto radiofoniche o lo spolio delle sue esperienze pedagogiche dentro e fuori l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico, l’analisi della sua generosa e multiforme militanza spesa a sostegno della nuova drammaturgia (svariante dalla partecipazione a premi in qualità di giurata alla scommessa su nuovi talenti attraverso ripetuti incontri con scritture per la scena ancora vergini), la ricapitolazione delle sue strenue lotte per il riconoscimento del valore culturale, etico e politico del fare teatro combattute sul filo delle frequenti partecipazioni a convegni, giornate di studio, tavole rotonde, incontri col pubblico nei luoghi più disparati (scuole, librerie, fabbriche, studi televisivi, feste dell’Unità…), il sunto delle sue sporadiche prove registiche e la catalogazione sistematica della sua intensissima attività di lettrice o performer monologante ai limiti del teatro di rappresentazione e del superamento della regia non solo sono state finalizzate a fornire preziosi materiali per fissare le coordinate poetiche di riferimento dell’arte dell’attrice, il profilo del suo inconfondibile ductus interpretativo, l’assetto del suo ricchissimo arsenale di risorse tecniche o ancora per tentare una valutazione critica globale della sua carriera, ma sono state anche volte ad offrire stimoli preziosi per affrontare alcune questioni cruciali della storia del teatro italiano dell’ultimo mezzo secolo. In virtù della natura stessa del lavoro di Marisa, aperto alle più varie istanze estetiche e sempre in vigile ascolto delle sollecitazioni dell’attualità, scopo della monografia è stato infatti di cifrare en abîme, tra i capitoli della biografia della Fabbri, un quadro problematico delle scene nazionali del dopoguerra. Nell’arco della monografia, sul fronte dell’interpretazione dei tratti peculiari della civiltà teatrale italiana contemporanea, l’analisi della parabola artistica della Fabbri si è prestata ad esaminare in filigrana: la definitiva implosione del sistema teatrale all’antica italiana, le nuove modalità di formazione dell’attore esperite dopo la crisi dei modelli ‘familiari’, la nascita del teatro di regia nazionale e il parallelo e complementare riassetto dell’identità dell’attore sulle ribalte del nostro paese, il dibattito intorno alle forme della recitazione italiana, con occhio particolare alla codificazione della maniera ‘ronconiana’, la seriore messa in discussione del primato registico e il conseguente approdo all’orizzonte operativo della post-regia, l’accesa discussione intorno alla questione della nuova drammaturgia nazionale. Sul fronte dell’indagine intorno agli statuti della società teatrale italiana del secondo Novecento lo studio del percorso dell’attrice ha consentito di riflettere circa influsso esercitato sull’organizzazione delle scene nazionali contemporanee dalle esperienze delle filodrammatiche e del teatro universitario, così come di interrogarsi sul senso dell’avventura degli Stabili nei suoi vari rovesci di fortuna, sulle funzioni e sull’eredità delle culture del cooperativismo e del laboratorio tipiche degli anni Settanta, sull’effettiva funzionalità delle attuali ‘scuole per attori’, tentando pure di abbozzare una geografia sufficientemente precisa del composito paesaggio teatrale nazionale tra Firenze, Milano, Trieste, Roma, Prato e Torino, in vista di un rendiconto meditato, su scala italiana, dei fitti e non sempre chiari commerci tra prassi teatrale e dinamiche socio-politiche coeve. Sul fronte della disamina critica delle poetiche sceniche, la ricerca delle radici etimologiche del modo performativo della ‘scrittura vivente’, lucidamente teorizzato dalla Fabbri all’ombra di Ronconi nel corso degli anni Novanta, ha spinto a riaprire l’inchiesta sulle vie di penetrazione del brechtismo in Italia, sulle declinazioni teatrali delle estetiche e delle ideologie strutturaliste, sulle diverse configurazioni di compromesso tentate sulle scene nazionali degli ultimi decenni per armonizzare la coesistenza di ‘nuovo teatro’ e teatro ‘di tradizione’, sul ruolo esercitato dal confronto con il tragico antico in prospettiva strutturalista o antropologica per la rifondazione del teatro di regia negli anni Settanta, sulla decostruzione dei modelli naturalistici e sulla risemantizzazione delle esperienze dialettali caratteristiche del teatro italiano del secondo Novecento. Occorre infine precisare che, in forza del versatile attraversamento dei diversi codici spettacolari sperimentato dalla Fabbri, il racconto della carriera dell’attrice ha permesso istruttive digressioni sui rapporti creatisi in Italia negli ultimi decenni tra cinema, televisione, radio e teatro così come ha consentito di tracciare rapidi scorci su alcuni aspetti salienti della storia recente dei linguaggi dei nuovi media nel nostro bel paese.

Marisa Fabbri. Lungo viaggio attraverso il teatro di regia

LONGHI, CLAUDIO
2010-01-01

Abstract

1. Profilo dell’attrice Marisa Fabbri nasce a Firenze il 15 agosto 1927 e fin da bambina dimostra una spiccata propensione per il teatro. Dopo il diploma di recitazione conseguito presso la Scuola di Arte Drammatica di via Laura a Firenze, nel capoluogo toscano la sua formazione scenica viene maturandosi a stretto contatto con il mondo delle filodrammatiche e, soprattutto, del teatro universitario: è infatti tra le più attive animatrici del Teatro delle Arti, diretto da Athos Ori, gruppo legato all’Ateneo fiorentino. In realtà la Fabbri, per sua natura portata a concepire la vita come un lungo viaggio di conoscenza, continuerà un suo autonomo percorso di formazione per tutto l’arco della sua lunga carriera. Fin dalla giovinezza il punto di riferimento teatrale dell’attrice è Bertolt Brecht, conosciuto attraverso i testi che nel dopoguerra cominciano a circolare in Italia: al di là della lezione tecnica, da Brecht la Fabbri mutua la convinzione, per lei fondamentale, che nella vita di un attore l’esercizio dell’arte non possa andare scisso dal profondo impegno civile e politico. Dopo un primo isolato appuntamento con De Bosio a Padova (Sei personaggi in cerca d’autore, 1952), l’occasione per uscire da Firenze arriva dal Teatro S. Erasmo di Milano: Carlo Lari la vuole tra gli interpreti di Gallina vecchia di Augusto Novelli con Lola Braccini (1954). Trascorse alcune stagioni al S. Erasmo, Marisa passa al nuovo Teatro del Convegno di Enzo Ferrieri, dove rimane fino alla fine degli anni Cinquanta. All’inizio del decennio successivo la Fabbri viene scritturata dal Teatro Stabile della Città di Trieste: lì l’attrice ha l’occasione di interpretare testi di Brecht (Un uomo è un uomo, 1963), lavora con Fulvio Tolusso e soprattutto incontra Aldo Trionfo (La storia di Vasco, 1963; Dialoghi con Leucò, 1964; Vinzenz e l’amica degli uomini importanti, 1964). Nel 1966 la svolta: in agosto Marisa debutta nei Lunatici, con la coppia Fantoni-Fortunato, per la regia di Luca Ronconi e a novembre, coronando il sogno della sua vita, è chiamata da Strehler, da lei considerato da sempre il Maestro, per la sua nuova edizione de I giganti della montagna. Il rapporto con Strehler si consumerà nel volgere di poche stagioni: la Fabbri segue il regista nell’avventura del Gruppo Teatro e Azione – Cantata di un mostro Lusitano, 1969; Nel fondo, 1970; Referendum per l’assoluzione o la condanna di un criminale di guerra (Walter Reder), 1971 –, ma dopo l’ultimo spettacolo della formazione interrompe i contatti con lui. Ben altro respiro ha invece l’incontro con Ronconi: al primo appuntamento dei Lunatici fanno infatti seguito una lunga serie di interpretazioni memorabili; tra tutte: la regina Elisabetta in Riccardo III (1968), Clitemnestra ne l’Orestea (1972), la straordinaria restituzione delle Baccanti a Prato, in cui l’attrice recita tutti i ‘personaggi’ (1978), Ludwig Adrian Brodersen in Ignorabimus (1986), la signora Lidoine ne I dialoghi delle Carmelitane (1988), Olga in Tre sorelle (1989), la signora Wahnschaffe ne Gli ultimi giorni dell’umanità (1990), il magistrale cammeo di Seth ne Il lutto si addice ad Elettra (1997). Oltre ad una pioggia di riconoscimenti, questa lunga serie di spettacoli, in tandem col grande regista, ormai divenuto suo interlocutore ideale, valgono alla Fabbri la qualifica, denigratoria per taluni, laudativa per lei, di attrice ‘ronconiana’ per eccellenza. Coniugando sapientemente strutturalismo, brechtismo, lezione strehleriana, passione per le letture e accesa militanza politica, lavorando con Ronconi la Fabbri arriva a mettere definitivamente a punto il suo paradigma metodologico dell’attore come «scrittura vivente», marchio indelebile del suo stile inconfondibile e anticonvenzionale. La pur fortissima relazione con Ronconi non monopolizza integralmente Marisa, che continua ad alimentare la sua crescita collaborando negli anni Settanta con il Gruppo Lavoro di Teatro, insieme al compagno Paolo Modugno (Comedia per Venezia, 1973; Ti ricordi domani?, 1975; 53 + 68 = 76, 1976), e cimentandosi, nei decenni successivi, con sempre nuovi registi: da Cherif (Pièce noire, 1987) a Cobelli (I parenti terribili, 1991), da Tiezzi (Conversazione per passare la notte, 1995) a Mauro Avogadro (Il dolore, 1997) e a Barbara Nativi (Io, Paola, la commediante, 2000). Intensa, soprattutto negli anni novanta, la sua attività di monologante (Dall’opaco, 1990; il monologo dello Spirito della Madre da Bestia da Stile, 1991) in cui prende appieno corpo il suo accanito lavoro sul linguaggio. Non paga del suo essere solo attrice, la Fabbri sperimenta nel tempo anche la regia (Inaugurazione, 1981) e soprattutto l’insegnamento, attività importantissima negli ultimi venti anni della sua carriera: dall’anno scolastico 1982-1983, Marisa, chiamata da Trionfo, avvia la sua collaborazione in qualità di docente con l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico, cui si affiancherà negli anni novanta il lavoro presso la Scuola del Teatro Stabile di Torino sotto l’egida di Ronconi. In campo teatrale doveroso ricordare pure l’impegno profuso a vari livelli dall’attrice per il sostegno alla nuova drammaturgia. Non secondaria, anche se ridotta, la sua attività cinematografica (ad esempio: Sacco e Vanzetti di Montaldo, 1971; 4 mosche di velluto grigio di Dario Argento, 1971; Milarepa della Cavani, 1974; Gli Astronomi di Ronsisvalle, 2002), televisiva (notevole in particolare il John Gabriel Borkman diretto da Ronconi, 1982) e soprattutto radiofonica (si ricordino almeno: Il comunista, 1977; Mitosi, 1992; L’abominevole donna delle nevi, 1997; Alcesti di Samuele, 1998). Marisa Fabbri si è spenta a Roma il 10 giugno 2003. 2. Contenuti del volume Muovendo dal racconto del lungo viaggio di Marisa Fabbri attraverso il teatro, scandito attraverso le differenti tappe della formazione e della successiva affermazione professionale dell’attrice, lo studio si è proposto ad un tempo di tracciare un primo bilancio storico-critico dell’esperienza fabbriana e di tentare un’interpretazione d’insieme del teatro italiano del secondo Novecento, formulata dal punto di vista dell’attore. Inquadrandosi in un impianto a doppio binario che affianca e giustappone il piano della ricerca biografica a quello della riflessione storica più lata, nel corso della monografia la ricostruzione dell’iniziazione alla scena della Fabbri attraverso i circuiti delle filodrammatiche e del teatro universitario fiorentino, la rievocazione del passaggio dell’attrice a Milano negli anni Cinquanta – tra Teatro Sant’Erasmo e Nuovo Teatro del Convegno – e del suo approdo al teatro Stabile di Trieste nel decennio successivo, lo studio del suo apprendistato e dei suoi successi al fianco di grandi maestri come Trionfo, Strehler e Ronconi (ma anche di figure di indubbio interesse come Bolchi, Cobelli, De Bosio, Tiezzi, Cherif o la Nativi) e del suo ‘engagement’ nei gruppi ‘Teatro e Azione’ prima e ‘Lavoro di Teatro’ poi, il regesto delle sue non poche avventure televisive, cinematografiche e soprattutto radiofoniche o lo spolio delle sue esperienze pedagogiche dentro e fuori l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico, l’analisi della sua generosa e multiforme militanza spesa a sostegno della nuova drammaturgia (svariante dalla partecipazione a premi in qualità di giurata alla scommessa su nuovi talenti attraverso ripetuti incontri con scritture per la scena ancora vergini), la ricapitolazione delle sue strenue lotte per il riconoscimento del valore culturale, etico e politico del fare teatro combattute sul filo delle frequenti partecipazioni a convegni, giornate di studio, tavole rotonde, incontri col pubblico nei luoghi più disparati (scuole, librerie, fabbriche, studi televisivi, feste dell’Unità…), il sunto delle sue sporadiche prove registiche e la catalogazione sistematica della sua intensissima attività di lettrice o performer monologante ai limiti del teatro di rappresentazione e del superamento della regia non solo sono state finalizzate a fornire preziosi materiali per fissare le coordinate poetiche di riferimento dell’arte dell’attrice, il profilo del suo inconfondibile ductus interpretativo, l’assetto del suo ricchissimo arsenale di risorse tecniche o ancora per tentare una valutazione critica globale della sua carriera, ma sono state anche volte ad offrire stimoli preziosi per affrontare alcune questioni cruciali della storia del teatro italiano dell’ultimo mezzo secolo. In virtù della natura stessa del lavoro di Marisa, aperto alle più varie istanze estetiche e sempre in vigile ascolto delle sollecitazioni dell’attualità, scopo della monografia è stato infatti di cifrare en abîme, tra i capitoli della biografia della Fabbri, un quadro problematico delle scene nazionali del dopoguerra. Nell’arco della monografia, sul fronte dell’interpretazione dei tratti peculiari della civiltà teatrale italiana contemporanea, l’analisi della parabola artistica della Fabbri si è prestata ad esaminare in filigrana: la definitiva implosione del sistema teatrale all’antica italiana, le nuove modalità di formazione dell’attore esperite dopo la crisi dei modelli ‘familiari’, la nascita del teatro di regia nazionale e il parallelo e complementare riassetto dell’identità dell’attore sulle ribalte del nostro paese, il dibattito intorno alle forme della recitazione italiana, con occhio particolare alla codificazione della maniera ‘ronconiana’, la seriore messa in discussione del primato registico e il conseguente approdo all’orizzonte operativo della post-regia, l’accesa discussione intorno alla questione della nuova drammaturgia nazionale. Sul fronte dell’indagine intorno agli statuti della società teatrale italiana del secondo Novecento lo studio del percorso dell’attrice ha consentito di riflettere circa influsso esercitato sull’organizzazione delle scene nazionali contemporanee dalle esperienze delle filodrammatiche e del teatro universitario, così come di interrogarsi sul senso dell’avventura degli Stabili nei suoi vari rovesci di fortuna, sulle funzioni e sull’eredità delle culture del cooperativismo e del laboratorio tipiche degli anni Settanta, sull’effettiva funzionalità delle attuali ‘scuole per attori’, tentando pure di abbozzare una geografia sufficientemente precisa del composito paesaggio teatrale nazionale tra Firenze, Milano, Trieste, Roma, Prato e Torino, in vista di un rendiconto meditato, su scala italiana, dei fitti e non sempre chiari commerci tra prassi teatrale e dinamiche socio-politiche coeve. Sul fronte della disamina critica delle poetiche sceniche, la ricerca delle radici etimologiche del modo performativo della ‘scrittura vivente’, lucidamente teorizzato dalla Fabbri all’ombra di Ronconi nel corso degli anni Novanta, ha spinto a riaprire l’inchiesta sulle vie di penetrazione del brechtismo in Italia, sulle declinazioni teatrali delle estetiche e delle ideologie strutturaliste, sulle diverse configurazioni di compromesso tentate sulle scene nazionali degli ultimi decenni per armonizzare la coesistenza di ‘nuovo teatro’ e teatro ‘di tradizione’, sul ruolo esercitato dal confronto con il tragico antico in prospettiva strutturalista o antropologica per la rifondazione del teatro di regia negli anni Settanta, sulla decostruzione dei modelli naturalistici e sulla risemantizzazione delle esperienze dialettali caratteristiche del teatro italiano del secondo Novecento. Occorre infine precisare che, in forza del versatile attraversamento dei diversi codici spettacolari sperimentato dalla Fabbri, il racconto della carriera dell’attrice ha permesso istruttive digressioni sui rapporti creatisi in Italia negli ultimi decenni tra cinema, televisione, radio e teatro così come ha consentito di tracciare rapidi scorci su alcuni aspetti salienti della storia recente dei linguaggi dei nuovi media nel nostro bel paese.
2010
9788860873132
15
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