A partire dai primi anni Duemila, con fenomeni di globalizzazione sempre più marcati, i distretti produttivi del Nord-Est sono stati esposti in maniera rilevante alle dinamiche internazionali. Con la crisi economica degli ultimi anni, un sistema che sembrava relativamente stabile ha subito improvvise involuzioni, è in corso ormai da alcuni anni una sorta di “rivoluzione silenziosa”, un processo di adattamento alle difficoltà portate dalla concorrenza e una continua rincorsa a mantenere competitivi i processi di produzione. Nessuno avrebbe potuto immaginare che l’area traino al dinamismo economico del paese, soprattutto nell’export e nei prodotti del made in Italy, potesse avviarsi verso una spirale di crescente debolezza. La coscienza di aver sviluppato forme di successo dal punto di vista imprenditoriale ha fatto sì che si sia creata una sorta di presunzione di essere indenni da problemi, che ha generato isolamento e incapacità nel cogliere segnali di cambiamento provenienti dal mercato. Il Nord-Est, sta attraversando una fase di metamorfosi molto profonda che investe non solo il tessuto produttivo, ma anche le comunità locali, quest’ultime da sempre vero “carburante” del successo del sistema distrettuale. Crisi economica, dunque, ma anche crisi sociale, di identità e di ruolo. Parole come “disoccupazione” e “cassa integrazione”, che fino ad ora erano quasi sconosciute, oggi fanno capolino nelle cronache dei quotidiani: ambiti territoriali destabilizzati iniziano a porsi problemi che mai li avevano intaccati nei periodi di sviluppo e crescita. Inoltre, se l’interazione tra sistema economico e sistema sociale, considerata nei suoi aspetti storici, culturali, politici, istituzionali, è stata il punto di forza di questo modello di sviluppo, cosa può accadere se i legami o qualche tassello di tale rapporto saltano? Il dibattito che sembra svilupparsi in questi ultimi anni sembra voler indagare come la crisi abbia modificato non solo i comportamenti delle imprese, ma anche il modo in cui conoscenze, valori, istituzioni e mondo della produzione oggi interagiscono fra di loro. Oggi le aree produttive e distrettuali di più antica formazione subiscono processi di parziale dismissione o rilocalizzazione. Le imprese che non attraversano segnali di grave crisi, spesso già internazionalizzate e con una dimensione aziendale consistente, trasferiscono la produzione all’estero, sperando in vantaggi sotto l’aspetto dell’ambiente fiscale e amministrativo. Alcune si spostano all’interno di nuove aree industriali situate in altre città o nuovi territori o in zone meglio servite dal punto di vista infrastrutturale e logistico. La crisi ha fatto emergere una nuova domanda di governo del territorio, non più legata ad una fase espansiva, bensì al problema della dimissione dei “capannoni” (molti dei quali sotto-utilizzati), delle possibili destinazioni d’uso, della limitazione della crescita edilizia e, più in generale, della transizione verso nuovi modelli di sviluppo, ha visto molti attori di politiche pubbliche del tutto impreparati. L’impressione è che, senza un ruolo guida delle istituzioni locali, difficilmente i capannoni troveranno una spontanea riconversione a causa dei costi e delle procedure particolarmente complesse. Il tutto mentre associazioni di categoria e imprenditori continuano a lamentare l’eccesso di burocratizzazione e di tempi lunghi per le nuove autorizzazioni per costruire magazzini ed edifici produttivi.

“C'è un Nord-Est oltre il mito?”

GASTALDI, FRANCESCO
2012-01-01

Abstract

A partire dai primi anni Duemila, con fenomeni di globalizzazione sempre più marcati, i distretti produttivi del Nord-Est sono stati esposti in maniera rilevante alle dinamiche internazionali. Con la crisi economica degli ultimi anni, un sistema che sembrava relativamente stabile ha subito improvvise involuzioni, è in corso ormai da alcuni anni una sorta di “rivoluzione silenziosa”, un processo di adattamento alle difficoltà portate dalla concorrenza e una continua rincorsa a mantenere competitivi i processi di produzione. Nessuno avrebbe potuto immaginare che l’area traino al dinamismo economico del paese, soprattutto nell’export e nei prodotti del made in Italy, potesse avviarsi verso una spirale di crescente debolezza. La coscienza di aver sviluppato forme di successo dal punto di vista imprenditoriale ha fatto sì che si sia creata una sorta di presunzione di essere indenni da problemi, che ha generato isolamento e incapacità nel cogliere segnali di cambiamento provenienti dal mercato. Il Nord-Est, sta attraversando una fase di metamorfosi molto profonda che investe non solo il tessuto produttivo, ma anche le comunità locali, quest’ultime da sempre vero “carburante” del successo del sistema distrettuale. Crisi economica, dunque, ma anche crisi sociale, di identità e di ruolo. Parole come “disoccupazione” e “cassa integrazione”, che fino ad ora erano quasi sconosciute, oggi fanno capolino nelle cronache dei quotidiani: ambiti territoriali destabilizzati iniziano a porsi problemi che mai li avevano intaccati nei periodi di sviluppo e crescita. Inoltre, se l’interazione tra sistema economico e sistema sociale, considerata nei suoi aspetti storici, culturali, politici, istituzionali, è stata il punto di forza di questo modello di sviluppo, cosa può accadere se i legami o qualche tassello di tale rapporto saltano? Il dibattito che sembra svilupparsi in questi ultimi anni sembra voler indagare come la crisi abbia modificato non solo i comportamenti delle imprese, ma anche il modo in cui conoscenze, valori, istituzioni e mondo della produzione oggi interagiscono fra di loro. Oggi le aree produttive e distrettuali di più antica formazione subiscono processi di parziale dismissione o rilocalizzazione. Le imprese che non attraversano segnali di grave crisi, spesso già internazionalizzate e con una dimensione aziendale consistente, trasferiscono la produzione all’estero, sperando in vantaggi sotto l’aspetto dell’ambiente fiscale e amministrativo. Alcune si spostano all’interno di nuove aree industriali situate in altre città o nuovi territori o in zone meglio servite dal punto di vista infrastrutturale e logistico. La crisi ha fatto emergere una nuova domanda di governo del territorio, non più legata ad una fase espansiva, bensì al problema della dimissione dei “capannoni” (molti dei quali sotto-utilizzati), delle possibili destinazioni d’uso, della limitazione della crescita edilizia e, più in generale, della transizione verso nuovi modelli di sviluppo, ha visto molti attori di politiche pubbliche del tutto impreparati. L’impressione è che, senza un ruolo guida delle istituzioni locali, difficilmente i capannoni troveranno una spontanea riconversione a causa dei costi e delle procedure particolarmente complesse. Il tutto mentre associazioni di categoria e imprenditori continuano a lamentare l’eccesso di burocratizzazione e di tempi lunghi per le nuove autorizzazioni per costruire magazzini ed edifici produttivi.
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