Con l’avvio dell’età moderna a Venezia il conflitto tra la sperimentata pratica posseduta dalle maestranze locali e il sentire costruttivo dei fautori della nuova architettura emerge con piena evidenza nel caso dell’edificazione della chiesa di San Nicolò da Tolentino. Nel novembre 1591 si pose la prima pietra dell’edificio, ma, a seguito di una dura polemica con i committenti che lo incolpavano di aver eseguito malamente le opere di fondazione, quattro anni dopo Vincenzo Scamozzi venne estromesso dal cantiere. La contestazione verteva sulle opere di fondazione, che l’architetto – rigettando il consueto impiego di terra da savon – aveva realizzato con malta di calce e sabbia. Materiale fin da epoca remota utilizzato in città nei massi fondali delle fabbriche, la terra da savon è un sottoprodotto della preparazione del sapone, costituito dal residuo delle ceneri di piante arbustive alofite ricche di carbonato di sodio che venivano miscelate alla calce viva e all’acqua, per intensificare la causticità; il liquido così ottenuto era pronto per essere unito all’olio d’oliva. Venezia tra basso medioevo e prima età moderna non aveva rivali in quel campo dell’industria manifatturiera: alla fine del XVI secolo si può valutare che lo scarto di terra da savon ammontasse a circa 2.000 metri cubi annui. La mera disponibilità di tale materiale, tuttavia, non basta a spiegare il suo impiego nelle fondazioni delle fabbriche veneziane, poiché nelle altre aree mediterranee di produzione saponaria non è mai stata utilizzata a tale scopo. I motivi che hanno indotto le maestranze locali a reputarla adatta per le opere di fondazione vanno ricercati nelle specifiche condizioni del sito lagunare, e individuate nella volontà di assecondare fin dalle prime fasi di erezione il progressivo assestamento della fabbrica. Il residuo della preparazione delle liscivie caustiche, composto essenzialmente da idrossido di calcio e acqua, quando usata nelle opere di fondazione veniva addizionato solo con una modesta quantità di calce spenta. Materiale di debole presa, e alquanto duttile, che in tale condizione si conservava anche a fondazioni concluse. Lungi dal costituire una condizione sfavorevole, la plasticità della terra da savon consentiva al masso sotterraneo di assorbire parte degli assestamenti dei terreni indotti dal progressivo aumento di carico trasmesso dall’edificio in crescita. Con l’utilizzo della terra da savon da parte della tradizione costruttiva locale si veniva a costituire una sorta di cuscinetto interposto fra il terreno sottofondale costipato dalla palificata e le muraglie soprastanti, capace di assorbire in parte quegli assestamenti che, se subiti da muraglie interamente murate con “buone malte di calcina et sabion”, avrebbero comportato tensioni tali da favorire la comparsa di lesioni nelle membrature di spiccato molto più numerose e ben più gravi. Il suo impiego scaturisce da una concezione edificatoria che si poneva in plateale contrasto con uno degli assunti fondamentali insiti in ogni altra cultura del fabbricare fino allora apparsa, fondata sull’impiego della pietra o del mattone, quello della firmitas, che assieme all’utilitas e alla venustas della triade vitruviana rappresentava il fondamento principe della costruzione. Proprio con una tale visione costruttiva, tesa ad assecondare la deformabilità dell’edificio, si sono scontrate le convinzioni di Vincenzo Scamozzi: convinto assertore del principio della rigidità nel costruire, rigettò in toto il pensiero che sottendeva a tale scelta, mirato ad attenuare i diversi cali dei setti murari e ad attutire, riducendola, l’entità dei quadri fessurativi.

San Nicola da Tolentino fra trattato e cantiere

Mario Piana
2015-01-01

Abstract

Con l’avvio dell’età moderna a Venezia il conflitto tra la sperimentata pratica posseduta dalle maestranze locali e il sentire costruttivo dei fautori della nuova architettura emerge con piena evidenza nel caso dell’edificazione della chiesa di San Nicolò da Tolentino. Nel novembre 1591 si pose la prima pietra dell’edificio, ma, a seguito di una dura polemica con i committenti che lo incolpavano di aver eseguito malamente le opere di fondazione, quattro anni dopo Vincenzo Scamozzi venne estromesso dal cantiere. La contestazione verteva sulle opere di fondazione, che l’architetto – rigettando il consueto impiego di terra da savon – aveva realizzato con malta di calce e sabbia. Materiale fin da epoca remota utilizzato in città nei massi fondali delle fabbriche, la terra da savon è un sottoprodotto della preparazione del sapone, costituito dal residuo delle ceneri di piante arbustive alofite ricche di carbonato di sodio che venivano miscelate alla calce viva e all’acqua, per intensificare la causticità; il liquido così ottenuto era pronto per essere unito all’olio d’oliva. Venezia tra basso medioevo e prima età moderna non aveva rivali in quel campo dell’industria manifatturiera: alla fine del XVI secolo si può valutare che lo scarto di terra da savon ammontasse a circa 2.000 metri cubi annui. La mera disponibilità di tale materiale, tuttavia, non basta a spiegare il suo impiego nelle fondazioni delle fabbriche veneziane, poiché nelle altre aree mediterranee di produzione saponaria non è mai stata utilizzata a tale scopo. I motivi che hanno indotto le maestranze locali a reputarla adatta per le opere di fondazione vanno ricercati nelle specifiche condizioni del sito lagunare, e individuate nella volontà di assecondare fin dalle prime fasi di erezione il progressivo assestamento della fabbrica. Il residuo della preparazione delle liscivie caustiche, composto essenzialmente da idrossido di calcio e acqua, quando usata nelle opere di fondazione veniva addizionato solo con una modesta quantità di calce spenta. Materiale di debole presa, e alquanto duttile, che in tale condizione si conservava anche a fondazioni concluse. Lungi dal costituire una condizione sfavorevole, la plasticità della terra da savon consentiva al masso sotterraneo di assorbire parte degli assestamenti dei terreni indotti dal progressivo aumento di carico trasmesso dall’edificio in crescita. Con l’utilizzo della terra da savon da parte della tradizione costruttiva locale si veniva a costituire una sorta di cuscinetto interposto fra il terreno sottofondale costipato dalla palificata e le muraglie soprastanti, capace di assorbire in parte quegli assestamenti che, se subiti da muraglie interamente murate con “buone malte di calcina et sabion”, avrebbero comportato tensioni tali da favorire la comparsa di lesioni nelle membrature di spiccato molto più numerose e ben più gravi. Il suo impiego scaturisce da una concezione edificatoria che si poneva in plateale contrasto con uno degli assunti fondamentali insiti in ogni altra cultura del fabbricare fino allora apparsa, fondata sull’impiego della pietra o del mattone, quello della firmitas, che assieme all’utilitas e alla venustas della triade vitruviana rappresentava il fondamento principe della costruzione. Proprio con una tale visione costruttiva, tesa ad assecondare la deformabilità dell’edificio, si sono scontrate le convinzioni di Vincenzo Scamozzi: convinto assertore del principio della rigidità nel costruire, rigettò in toto il pensiero che sottendeva a tale scelta, mirato ad attenuare i diversi cali dei setti murari e ad attutire, riducendola, l’entità dei quadri fessurativi.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11578/276793
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