Tel Aviv, la “prima città ebraica moderna autoprodotta”, è stata riconosciuta come la più grande aggregazione urbana di edifici residenziali e commerciali del- l’“International Style”1. Tuttavia l’ingresso della città nel Patrimonio Mondiale dell’Umanità e l’allineamento alla sue regole di conservazione storicista della sola estetica - fatta di tetti piani, linee curve e pilotis - ha esasperato un fenomeno già in atto di consolidamento di uno sviluppo multilayer della città e il venir meno della conservazione dell’importante patrimonio di “relazioni” tra forma fisica e bisogni sociali, che caratterizzavano il modello di città giardino pensato da Patrick Geddes negli anni ‘20 per Tel Aviv e la visione modernista dello spazio esterno come spazio vissuto. La città di Tel Aviv presenta un patrimonio costruito caratterizzato da una stratificazione riconoscibile di abitazioni: gli edifici in stile ecclettico, la città bianca degli anni 20 in stile Bauhaus, gli edifici “tardo Bauhaus” degli anni 50-60 (caratterizzato da brise soleil, gradi aperture, pilotis e tetto praticabile) e lo sviluppo verticale degli edifici a torre contemporanei. Questo intricato sistema di case sono collegate tra loro attraverso una gerarchia di livelli di relazioni (casa- strada, casa-casa) per cui la città non viene vissuta né nel suo insieme né come case singole, ma attraverso il modo in cui le singole abitazioni compongono la città, attraverso gli spazi (stradine, i cortili, i beckyards) che si formano tra di esse. La nomi- na a Patrimonio UNESCO ha portato a una narrazione “museale”, essenziale della città bianca, tralasciando la molteplicità di opere post Bauhaus, le relazioni e pratiche spaziali locali, che caratterizzano la vera identità della città vitale e multietnica di Tel Aviv. Il paper vuole porre, sul modello di Tel Aviv, una riflessione sulle strategie di identificazione e conservazione del patrimonio mondiale dell’umanità a partire dalle potenzialità insite nelle interfacce tra il costruito.

Una narrazione alternativa della città bianca dell’UNESCO : la vitalità dello spazio esterno

cristiana cellucci
2019-01-01

Abstract

Tel Aviv, la “prima città ebraica moderna autoprodotta”, è stata riconosciuta come la più grande aggregazione urbana di edifici residenziali e commerciali del- l’“International Style”1. Tuttavia l’ingresso della città nel Patrimonio Mondiale dell’Umanità e l’allineamento alla sue regole di conservazione storicista della sola estetica - fatta di tetti piani, linee curve e pilotis - ha esasperato un fenomeno già in atto di consolidamento di uno sviluppo multilayer della città e il venir meno della conservazione dell’importante patrimonio di “relazioni” tra forma fisica e bisogni sociali, che caratterizzavano il modello di città giardino pensato da Patrick Geddes negli anni ‘20 per Tel Aviv e la visione modernista dello spazio esterno come spazio vissuto. La città di Tel Aviv presenta un patrimonio costruito caratterizzato da una stratificazione riconoscibile di abitazioni: gli edifici in stile ecclettico, la città bianca degli anni 20 in stile Bauhaus, gli edifici “tardo Bauhaus” degli anni 50-60 (caratterizzato da brise soleil, gradi aperture, pilotis e tetto praticabile) e lo sviluppo verticale degli edifici a torre contemporanei. Questo intricato sistema di case sono collegate tra loro attraverso una gerarchia di livelli di relazioni (casa- strada, casa-casa) per cui la città non viene vissuta né nel suo insieme né come case singole, ma attraverso il modo in cui le singole abitazioni compongono la città, attraverso gli spazi (stradine, i cortili, i beckyards) che si formano tra di esse. La nomi- na a Patrimonio UNESCO ha portato a una narrazione “museale”, essenziale della città bianca, tralasciando la molteplicità di opere post Bauhaus, le relazioni e pratiche spaziali locali, che caratterizzano la vera identità della città vitale e multietnica di Tel Aviv. Il paper vuole porre, sul modello di Tel Aviv, una riflessione sulle strategie di identificazione e conservazione del patrimonio mondiale dell’umanità a partire dalle potenzialità insite nelle interfacce tra il costruito.
2019
978-88-909054-9-0
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