L’arte di creare e performare lo spazio scenico si manifesta attraverso un progetto creativo che vede coinvolte più competenze necessarie al raggiungimento di un’estetica dello spettacolo nel quale la rappresentazione dell’azione mimata, parlata, cantata o danzata è strettamente legata alla scenografia. La composizione e il controllo del vuoto teatrale, la gestione e la proiezione della luce, la coreografia dei gesti e dei movimenti concorrono a definire lo spazio della performatività, sempre più attento e contaminato dalle arti e dai media digitali. Assume priorità capire come creare l’immagine della scena, ragionare sul perimetro della sala e mappare i movimenti associati alla narrazione. Nella sperimentazione tra luogo e prestazioni attoriali, il significato e la funzione del disegno e della composizione degli apparati scenografici dimostrano come l’esecuzione sia l’atto finale di una sequenza di riflessioni e decisioni che coinvolgono la gestione dello spazio fisico e digitale nel sublime inganno della vista. Proprio dalla felice collaborazione tra la coreografa Dana Reitz e il light artist James Turrell viene messa in scena la performance Severe Clear (1985) al Radcliffe College (Massachusetts), dove un duetto lento e contemplativo penetra lo spazio dell’arte, rivelando e dissolvendo i propri corpi dell’omogeneità dell’assenza luminosa che annulla la profondità del palcoscenico. Lo Space Division Constructions, illusoria superficie che apparentemente delimita lo spazio come una tela appesa alla parete, acquista la sua consistenza tridimensionale solo nel momento in cui viene attraversata dai performer, svelando la sua natura effimera e contraddittoria. Di memoria turrelliana sono gli allestimenti minimalisti di Robert Wilson, eclettico regista e drammaturgo statunitense che nella versione di Mozart Der Messias (2020) mette in scena uno spazio luminoso strutturato e in Adam’s Passion (2015) si serve di una scenografia che contamina il pubblico invadendo lo spazio dell’osservazione. Un’altra «mutazione “genetica” dello spazio in un ambiente che non è più luogo neutro contenitore di eventi, ma spazio sensibile, estendibile, modellante e modulabile» (Balzola, Monteverdi 2004: 314) ricorre nelle performance della talentuosa ballerina Carolyn Carlson, ereditaria della composizione coreografica e pedagogica di Alwin Nikolais e attenta osservatrice della sintesi minimalista di Robert Wilson. In Double Vision (2016) gli abiti sono estensioni del set, fungono da schermi tessili pronti ad accogliere proiezioni di luce in cui il dialogo tra danza e scenografia, tra movimento e spazio è reso possibile dall’incontro tra la Carlson e il duo Electronic Shadow, formato dal direttore multimediale Aït Kaci e dall’architetto Naziha Mestaoui. Quest’ultimo aveva già sperimentato il felice connubio tra danza e arte digitale in Pixel (2014), ambiente visivo virtuale e vivente nato dalla collaborazione con Adrien M. & Claire B., gruppo da anni impegnato nel tentativo di allargare le soglie percettive di una spettacolarità interattiva e mobile. I due artisti guardano alla costruzione di uno spazio in assenza di un involucro materico, i danzatori interagiscono con fasci di luce che delimitano il luogo della performance. Alexander Whitley Dance Company, affronta la questione del corpo digitale immerso dentro spazi asettici nei quali il corpo istituisce un dialogo con la luce che lo delimita, lo attraversa e lo polverizza, effetti percettivi resi per mezzo di vere e proprie maschere digitali che seguono il corpo nello svolgersi del movimento. Rigide griglie pulsanti e luci intermittenti imprimono le fattezze di un luogo non più fisico ma fatto di oggetti evanescenti scanditi da suoni elettronici e sintetizzati. La simulazione dell’oggetto reale che, ormai completamente smaterializzato, permane nella sua traccia luminosa nel tentativo di ricostruire lo spazio intorno, prende corpo nel lavoro del coreografo Hiroaki Umeda, la sua danza interattiva si racconta in una ricerca della costruibilità dello spazio: la matrice rappresentabile è la luce, il dispositivo che la regola è il corpo. L’interesse sempre più fervido dei performer di arti visive digitali nell’ambito della danza sta veicolando innovative sperimentazioni digitali nelle quali la coreografia viene tradotta dalla luce nello spazio. Da una parte, ambienti immersivi che smaterializzano il corpo per lasciare spazio ai raggi luminosi; dall’altro, illusioni performative che esplorano la forma del corpo umano, le sue possibilità nello spazio, le sue interazioni con apparati tecnologici in grado di tradurre l’esecuzione in traccia luminosa. Alla luce di queste considerazioni, l’articolo propone una disamina di alcune delle più emblematiche esperienze di light-body e digital body offerte dall’attuale panorama delle performance digitali che interagiscono, decostruiscono e costruiscono lo spazio, muovendosi entro una rete multidimensionale in cui corpo, musica e luce diventano la nuova grammatica della forma.

Performing Space. Grafie di luce in movimento.

Liva, Gabriella;Vattano, Starlight
2022-01-01

Abstract

L’arte di creare e performare lo spazio scenico si manifesta attraverso un progetto creativo che vede coinvolte più competenze necessarie al raggiungimento di un’estetica dello spettacolo nel quale la rappresentazione dell’azione mimata, parlata, cantata o danzata è strettamente legata alla scenografia. La composizione e il controllo del vuoto teatrale, la gestione e la proiezione della luce, la coreografia dei gesti e dei movimenti concorrono a definire lo spazio della performatività, sempre più attento e contaminato dalle arti e dai media digitali. Assume priorità capire come creare l’immagine della scena, ragionare sul perimetro della sala e mappare i movimenti associati alla narrazione. Nella sperimentazione tra luogo e prestazioni attoriali, il significato e la funzione del disegno e della composizione degli apparati scenografici dimostrano come l’esecuzione sia l’atto finale di una sequenza di riflessioni e decisioni che coinvolgono la gestione dello spazio fisico e digitale nel sublime inganno della vista. Proprio dalla felice collaborazione tra la coreografa Dana Reitz e il light artist James Turrell viene messa in scena la performance Severe Clear (1985) al Radcliffe College (Massachusetts), dove un duetto lento e contemplativo penetra lo spazio dell’arte, rivelando e dissolvendo i propri corpi dell’omogeneità dell’assenza luminosa che annulla la profondità del palcoscenico. Lo Space Division Constructions, illusoria superficie che apparentemente delimita lo spazio come una tela appesa alla parete, acquista la sua consistenza tridimensionale solo nel momento in cui viene attraversata dai performer, svelando la sua natura effimera e contraddittoria. Di memoria turrelliana sono gli allestimenti minimalisti di Robert Wilson, eclettico regista e drammaturgo statunitense che nella versione di Mozart Der Messias (2020) mette in scena uno spazio luminoso strutturato e in Adam’s Passion (2015) si serve di una scenografia che contamina il pubblico invadendo lo spazio dell’osservazione. Un’altra «mutazione “genetica” dello spazio in un ambiente che non è più luogo neutro contenitore di eventi, ma spazio sensibile, estendibile, modellante e modulabile» (Balzola, Monteverdi 2004: 314) ricorre nelle performance della talentuosa ballerina Carolyn Carlson, ereditaria della composizione coreografica e pedagogica di Alwin Nikolais e attenta osservatrice della sintesi minimalista di Robert Wilson. In Double Vision (2016) gli abiti sono estensioni del set, fungono da schermi tessili pronti ad accogliere proiezioni di luce in cui il dialogo tra danza e scenografia, tra movimento e spazio è reso possibile dall’incontro tra la Carlson e il duo Electronic Shadow, formato dal direttore multimediale Aït Kaci e dall’architetto Naziha Mestaoui. Quest’ultimo aveva già sperimentato il felice connubio tra danza e arte digitale in Pixel (2014), ambiente visivo virtuale e vivente nato dalla collaborazione con Adrien M. & Claire B., gruppo da anni impegnato nel tentativo di allargare le soglie percettive di una spettacolarità interattiva e mobile. I due artisti guardano alla costruzione di uno spazio in assenza di un involucro materico, i danzatori interagiscono con fasci di luce che delimitano il luogo della performance. Alexander Whitley Dance Company, affronta la questione del corpo digitale immerso dentro spazi asettici nei quali il corpo istituisce un dialogo con la luce che lo delimita, lo attraversa e lo polverizza, effetti percettivi resi per mezzo di vere e proprie maschere digitali che seguono il corpo nello svolgersi del movimento. Rigide griglie pulsanti e luci intermittenti imprimono le fattezze di un luogo non più fisico ma fatto di oggetti evanescenti scanditi da suoni elettronici e sintetizzati. La simulazione dell’oggetto reale che, ormai completamente smaterializzato, permane nella sua traccia luminosa nel tentativo di ricostruire lo spazio intorno, prende corpo nel lavoro del coreografo Hiroaki Umeda, la sua danza interattiva si racconta in una ricerca della costruibilità dello spazio: la matrice rappresentabile è la luce, il dispositivo che la regola è il corpo. L’interesse sempre più fervido dei performer di arti visive digitali nell’ambito della danza sta veicolando innovative sperimentazioni digitali nelle quali la coreografia viene tradotta dalla luce nello spazio. Da una parte, ambienti immersivi che smaterializzano il corpo per lasciare spazio ai raggi luminosi; dall’altro, illusioni performative che esplorano la forma del corpo umano, le sue possibilità nello spazio, le sue interazioni con apparati tecnologici in grado di tradurre l’esecuzione in traccia luminosa. Alla luce di queste considerazioni, l’articolo propone una disamina di alcune delle più emblematiche esperienze di light-body e digital body offerte dall’attuale panorama delle performance digitali che interagiscono, decostruiscono e costruiscono lo spazio, muovendosi entro una rete multidimensionale in cui corpo, musica e luce diventano la nuova grammatica della forma.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11578/324468
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