Intellettuali, politica, potere: dalle parole ai fatti La questione del rapporto fra intellettuali e politica è stata molto affrontata e dibattuta soprattutto in relazione ai momenti storici, come le dittature o le guerre, controversi o drammatici e al tempo stesso di frequente difficili da comprendere, valutare e anche giudicare compiuta- mente [1]. Questo contributo propone un punto di vista su queste proble- matiche. Innanzitutto sembra utile distinguere fra agire politico indivi- duale in relazione al fare intellettuale-progettuale e agire in relazione alle condizioni “politiche” specifiche, cioè in particolare quelle di potere. Queste ultime – nella maggioranza dei casi soprattutto nelle fasi tormen- tate e segnate dal ricorso a diverse forme di violenza psicologica e fisica – pongono di fronte ad assenza o limitate alternative (anche se certo queste sono state percorse con coraggio da molti anche a rischio della propria vita) oppure a fraintendimenti rispetto alle possibilità. Risulta sempre difficile addentrarsi lungo queste direzioni di analisi senza approdare a facili condanne, assoluzioni o auto-assoluzio- ni che poco rispettano e rendono conto delle situazioni storiche “reali” nonché delle libere (seppur opinabili) scelte individuali. Una parzialità particolarmente evidente quando i giudizi sono basati su singoli episodi, magari legati a pubbliche affermazioni più o meno condizionate o vinco- late, come per esempio un’adesione formale o una richiesta di favori. A questo proposito allora sembra necessario e più significativo analizzare piuttosto quanto di “politico” è indicato e deducibile dalle concrete elaborazioni intellettuali e dall’azione progettuale. Sostenere punti di vista e agire in alcune direzioni in determinati momenti storici 49 Italia: design, politica e democrazia nel XX secolo esplicita – di frequente più che l’adesione a una posizione ideologica e/o partitica – pratiche politiche rilevanti, destinate a lasciare traccia e me- moria. In questo senso si può parlare di politica come presa di coscienza teorica-metodologica e coerenza di azione, in relazione alle condizioni e al proprio ruolo consapevole di progettista, tecnico, storico, critico, intellettuale. In alcun modo si intende per questa via eludere la presa di posizione rispetto a scelte di schieramento virtuose o ambigue, che alla fine appartengono però anche a una sfera di etica personale – più o meno condizionata e condizionabile, oltre che diversamente valutabile –, risulta però altrettanto importante analizzare l’operato concreto in relazione al proprio specifico, in questo caso disciplinare. La Casa del Fascio di Como, progettata da Giuseppe Terragni, in tutta evidenza è da conside- rare una pietra miliare della storia dell’architettura italiana; l’adesione dell’architetto al fascismo attiene a un altro livello di valutazione, certo complesso, problematico o discutibile. Oltre ogni equivoco: non vuol dire che ogni scelta è identica, ma va definito il campo in cui si sta operando la valutazione. Senza venire meno al giudizio critico su un periodo storico se- gnato da assenza di democrazia, condizioni di violenza, antisemitismo e, infine, una tragica guerra – rispetto cui le responsabilità sono certo di molti, perché non va dimenticato che gli anni della dittatura sono stati anche quelli del consenso –, sembra però rilevante studiare il periodo fra le guerre in Italia in modo più appropriato, ripartendo dalle fonti e dai “fatti”, da quanto concretamente accaduto dal punto di vista dell’elabora- zione intellettuale e della progettazione, dall’architettura al design alla comunicazione visiva. Scriveva l’architetto Ernesto Nathan Rogers, nel numero monografico di Casabella del 1946 dedicato proprio al ricordo di Giuseppe Pagano, morto in campo di concentramento a Mauthausen: «Gli architetti italiani moderni, dal più al meno, passarono per il fa- scismo; anche quelli che non aderirono, vi collaborarono con qualche opera: le mostre, gli edifici, le riviste [...] La fede nell’architettura spinse e guidò Pagano nella pericolosa strada del collaboratore prima, del dis- sidente poi e infine dell’avversario». [2]

Giuseppe Pagano, fascista e antifascista, e altre resistenze

Bassi, Alberto
2020-01-01

Abstract

Intellettuali, politica, potere: dalle parole ai fatti La questione del rapporto fra intellettuali e politica è stata molto affrontata e dibattuta soprattutto in relazione ai momenti storici, come le dittature o le guerre, controversi o drammatici e al tempo stesso di frequente difficili da comprendere, valutare e anche giudicare compiuta- mente [1]. Questo contributo propone un punto di vista su queste proble- matiche. Innanzitutto sembra utile distinguere fra agire politico indivi- duale in relazione al fare intellettuale-progettuale e agire in relazione alle condizioni “politiche” specifiche, cioè in particolare quelle di potere. Queste ultime – nella maggioranza dei casi soprattutto nelle fasi tormen- tate e segnate dal ricorso a diverse forme di violenza psicologica e fisica – pongono di fronte ad assenza o limitate alternative (anche se certo queste sono state percorse con coraggio da molti anche a rischio della propria vita) oppure a fraintendimenti rispetto alle possibilità. Risulta sempre difficile addentrarsi lungo queste direzioni di analisi senza approdare a facili condanne, assoluzioni o auto-assoluzio- ni che poco rispettano e rendono conto delle situazioni storiche “reali” nonché delle libere (seppur opinabili) scelte individuali. Una parzialità particolarmente evidente quando i giudizi sono basati su singoli episodi, magari legati a pubbliche affermazioni più o meno condizionate o vinco- late, come per esempio un’adesione formale o una richiesta di favori. A questo proposito allora sembra necessario e più significativo analizzare piuttosto quanto di “politico” è indicato e deducibile dalle concrete elaborazioni intellettuali e dall’azione progettuale. Sostenere punti di vista e agire in alcune direzioni in determinati momenti storici 49 Italia: design, politica e democrazia nel XX secolo esplicita – di frequente più che l’adesione a una posizione ideologica e/o partitica – pratiche politiche rilevanti, destinate a lasciare traccia e me- moria. In questo senso si può parlare di politica come presa di coscienza teorica-metodologica e coerenza di azione, in relazione alle condizioni e al proprio ruolo consapevole di progettista, tecnico, storico, critico, intellettuale. In alcun modo si intende per questa via eludere la presa di posizione rispetto a scelte di schieramento virtuose o ambigue, che alla fine appartengono però anche a una sfera di etica personale – più o meno condizionata e condizionabile, oltre che diversamente valutabile –, risulta però altrettanto importante analizzare l’operato concreto in relazione al proprio specifico, in questo caso disciplinare. La Casa del Fascio di Como, progettata da Giuseppe Terragni, in tutta evidenza è da conside- rare una pietra miliare della storia dell’architettura italiana; l’adesione dell’architetto al fascismo attiene a un altro livello di valutazione, certo complesso, problematico o discutibile. Oltre ogni equivoco: non vuol dire che ogni scelta è identica, ma va definito il campo in cui si sta operando la valutazione. Senza venire meno al giudizio critico su un periodo storico se- gnato da assenza di democrazia, condizioni di violenza, antisemitismo e, infine, una tragica guerra – rispetto cui le responsabilità sono certo di molti, perché non va dimenticato che gli anni della dittatura sono stati anche quelli del consenso –, sembra però rilevante studiare il periodo fra le guerre in Italia in modo più appropriato, ripartendo dalle fonti e dai “fatti”, da quanto concretamente accaduto dal punto di vista dell’elabora- zione intellettuale e della progettazione, dall’architettura al design alla comunicazione visiva. Scriveva l’architetto Ernesto Nathan Rogers, nel numero monografico di Casabella del 1946 dedicato proprio al ricordo di Giuseppe Pagano, morto in campo di concentramento a Mauthausen: «Gli architetti italiani moderni, dal più al meno, passarono per il fa- scismo; anche quelli che non aderirono, vi collaborarono con qualche opera: le mostre, gli edifici, le riviste [...] La fede nell’architettura spinse e guidò Pagano nella pericolosa strada del collaboratore prima, del dis- sidente poi e infine dell’avversario». [2]
2020
9788885745384
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11578/309189
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