Negli ultimi decenni, contingenze economiche, emergenze climatiche e mutamenti sociali hanno aperto il campo del restauro a nuove frontiere, come già emerso in uno degli ultimi incontri brissinensi. Lo storico processo di ampliamento dell’oggetto di interesse disciplinare ha registrato un’accelerazione, includendo diverse espressioni di cultura materiale e beni paesaggistici intesi nel senso della Convenzione Europea del Paesaggio. Mentre il concetto di Intangible Heritage ha comportato un’espansione qualitativa della tutela, al contempo esercitando una spinta centrifuga e differenziata, sia dal punto di vista geografico che culturale e filosofico. Le sollecitazioni si dispiegano dai massimi sistemi agli aspetti tecnici; la questione materiale/immateriale, il dualismo fisico/virtuale, il rapporto fra mezzi e fini rappresentano alcuni nodi concettuali e operativi dell’era tecnologica e digitale. In questo panorama, per il restauro la qualità non è solo un orizzonte di sviluppo ma diventa il requisito di un’istanza identitaria. La convergenza di interessi multidisciplinari nel campo del patrimonio costruito esistente ha composto un quadro che evidenzia il ruolo essenziale delle relazioni, sollecitando il restauro a interagire in termini più complessi rispetto a quell’interdisciplinarietà che, da anni, sta costruendo all’interno del suo campo di azione. Buona parte degli attuali orizzonti relazionali si colloca infatti al di fuori del dibattito disciplinare, coinvolgendo ambiti distanti e dotati di fini, strumenti e linguaggi diversi, ognuno legittimato a sostenere le proprie istanze. Al restauro viene chiesto di ricollocarsi in questo intreccio, come una delle differenti facce del rapporto della contemporaneità con le testimonianze del passato, in parte rinunciando ad un’esclusiva “istituzionale”. Da un lato, si sente l’urgenza di un linguaggio comune, per aprirsi all’esterno senza preconcetti ma senza abdicare ad un ruolo culturale e operativo, frutto di quasi due secoli di storia, riflessione teorica e ricerca tecnica. D’altro canto, la possibilità di diffondere le ragioni della conservazione anche al di fuori del dibattito disciplinare, è la prospettiva auspicabile per il restauro ma incalza verso un affinamento qualitativo, in termini di finalità, strumenti teorici e operativi, competenze. In questo quadro complesso e sostanzialmente proiettato verso il futuro può forse sembrare fuori luogo (o fuori tempo) l’interrogarsi sul contributo qualitativo che la tradizione costruttiva può offrire al progetto di restauro e all’intervento. Non si tratta di proporre uno sguardo ideologicamente retrospettivo ma una visione attualizzata e forse rigenerativa della tradizione, che potrebbe articolare l’approccio al patrimonio costruito in senso complementare al fisiologico e altrettanto necessario processo di innovazione. Alcune esperienze di ricerca in atto a Venezia – oggetto di un ulteriore contributo congiunto di carattere tecnico (cfr. Berto-Squassina) - sembrano incoraggiare strategie di conservazione e restauro basate anche sulla rivalutazione della cosiddetta sapienza costruttiva, ossia di quel bagaglio di cultura materiale e operativa della tradizione da cui dipende la specificità di ogni luogo. Venezia, dove le rigide condizioni ambientali hanno imposto una selezione continua di materiali e tecniche esecutive, può diventare un interessante, seppure non esclusivo, banco di prova. L’affinamento tecnologico secolare ha reso inconfondibili i suoi caratteri costruttivi e le finiture superficiali, dotandoli di una durevolezza comprovata; può essere quindi ragionevole e strategicamente opportuna la reintroduzione, negli interventi di restauro, di materiali e pratiche tradizionali di gran lunga qualitativamente superiori ai materiali recenti. Il processo è tutt’altro che semplice: si tratta di riattivare fonti di approvvigionamento non sempre reperibili, metodi operativi artigianali ma anche sistemi produttivi e commerciali distanti dalla standardizzazione richiesta dall’attuale sistema industrializzato e non contemplati nell’apparato normativo. Così come la manualità, usualmente richiesta dai processi artigianali, è sicuramente un fattore di qualità ma non va disgiunto da un’innovazione tecnologica che possa contenere i costi e far sì che il settore non si configuri come ambito di nicchia, ma come una filiera produttiva parallela. Non ultimo, è ormai molto alto il rischio di rottura irreversibile della catena di trasmissione di competenze in ambito artigiano, a causa del mancato ricambio generazionale. Nonostante questi ostacoli – che richiedono l’adozione di politiche di sostegno, sia a livello europeo che nazionale e locale - la scelta di riattivare l’attività artigianale può costituire un’opzione significativa, principalmente in termini di competenze tecniche e di livello qualitativo nella conduzione di interventi di restauro e di campagne manutentive. Inoltre, l’adozione di materiali e tecniche tradizionali può contribuire a massimizzare la componente conservativa rispetto al rinnovo, contribuendo anche ad un approccio generale più sostenibile. Ma è promettente anche la prospettiva di riverberi positivi in altri ambiti, come il rafforzamento della realtà artigiana in termini economici e sociali; la possibile apertura di opportunità professionali per le nuove generazioni e una maggior consapevolezza delle comunità locali rispetto alla difesa del patrimonio comune. Da qui l’importanza di attivare sinergie fra università, enti locali e di tutela e ambiti operativi. Il tentativo di percorrere, in apparente controtendenza, la via della tradizione - non intesa come alternativa ma come opzione complementare a quella di un’innovazione compatibile - è anche un tentativo di conciliare passato e futuro, i due referenti cronologici della conservazione, dialetticamente evocati da Walter Benjamin nel riferimento all’Angelus Novus di Paul Klee.

Tradizione costruttiva e qualità dell’intervento, fra passato e futuro

Squassina, Angela
2021-01-01

Abstract

Negli ultimi decenni, contingenze economiche, emergenze climatiche e mutamenti sociali hanno aperto il campo del restauro a nuove frontiere, come già emerso in uno degli ultimi incontri brissinensi. Lo storico processo di ampliamento dell’oggetto di interesse disciplinare ha registrato un’accelerazione, includendo diverse espressioni di cultura materiale e beni paesaggistici intesi nel senso della Convenzione Europea del Paesaggio. Mentre il concetto di Intangible Heritage ha comportato un’espansione qualitativa della tutela, al contempo esercitando una spinta centrifuga e differenziata, sia dal punto di vista geografico che culturale e filosofico. Le sollecitazioni si dispiegano dai massimi sistemi agli aspetti tecnici; la questione materiale/immateriale, il dualismo fisico/virtuale, il rapporto fra mezzi e fini rappresentano alcuni nodi concettuali e operativi dell’era tecnologica e digitale. In questo panorama, per il restauro la qualità non è solo un orizzonte di sviluppo ma diventa il requisito di un’istanza identitaria. La convergenza di interessi multidisciplinari nel campo del patrimonio costruito esistente ha composto un quadro che evidenzia il ruolo essenziale delle relazioni, sollecitando il restauro a interagire in termini più complessi rispetto a quell’interdisciplinarietà che, da anni, sta costruendo all’interno del suo campo di azione. Buona parte degli attuali orizzonti relazionali si colloca infatti al di fuori del dibattito disciplinare, coinvolgendo ambiti distanti e dotati di fini, strumenti e linguaggi diversi, ognuno legittimato a sostenere le proprie istanze. Al restauro viene chiesto di ricollocarsi in questo intreccio, come una delle differenti facce del rapporto della contemporaneità con le testimonianze del passato, in parte rinunciando ad un’esclusiva “istituzionale”. Da un lato, si sente l’urgenza di un linguaggio comune, per aprirsi all’esterno senza preconcetti ma senza abdicare ad un ruolo culturale e operativo, frutto di quasi due secoli di storia, riflessione teorica e ricerca tecnica. D’altro canto, la possibilità di diffondere le ragioni della conservazione anche al di fuori del dibattito disciplinare, è la prospettiva auspicabile per il restauro ma incalza verso un affinamento qualitativo, in termini di finalità, strumenti teorici e operativi, competenze. In questo quadro complesso e sostanzialmente proiettato verso il futuro può forse sembrare fuori luogo (o fuori tempo) l’interrogarsi sul contributo qualitativo che la tradizione costruttiva può offrire al progetto di restauro e all’intervento. Non si tratta di proporre uno sguardo ideologicamente retrospettivo ma una visione attualizzata e forse rigenerativa della tradizione, che potrebbe articolare l’approccio al patrimonio costruito in senso complementare al fisiologico e altrettanto necessario processo di innovazione. Alcune esperienze di ricerca in atto a Venezia – oggetto di un ulteriore contributo congiunto di carattere tecnico (cfr. Berto-Squassina) - sembrano incoraggiare strategie di conservazione e restauro basate anche sulla rivalutazione della cosiddetta sapienza costruttiva, ossia di quel bagaglio di cultura materiale e operativa della tradizione da cui dipende la specificità di ogni luogo. Venezia, dove le rigide condizioni ambientali hanno imposto una selezione continua di materiali e tecniche esecutive, può diventare un interessante, seppure non esclusivo, banco di prova. L’affinamento tecnologico secolare ha reso inconfondibili i suoi caratteri costruttivi e le finiture superficiali, dotandoli di una durevolezza comprovata; può essere quindi ragionevole e strategicamente opportuna la reintroduzione, negli interventi di restauro, di materiali e pratiche tradizionali di gran lunga qualitativamente superiori ai materiali recenti. Il processo è tutt’altro che semplice: si tratta di riattivare fonti di approvvigionamento non sempre reperibili, metodi operativi artigianali ma anche sistemi produttivi e commerciali distanti dalla standardizzazione richiesta dall’attuale sistema industrializzato e non contemplati nell’apparato normativo. Così come la manualità, usualmente richiesta dai processi artigianali, è sicuramente un fattore di qualità ma non va disgiunto da un’innovazione tecnologica che possa contenere i costi e far sì che il settore non si configuri come ambito di nicchia, ma come una filiera produttiva parallela. Non ultimo, è ormai molto alto il rischio di rottura irreversibile della catena di trasmissione di competenze in ambito artigiano, a causa del mancato ricambio generazionale. Nonostante questi ostacoli – che richiedono l’adozione di politiche di sostegno, sia a livello europeo che nazionale e locale - la scelta di riattivare l’attività artigianale può costituire un’opzione significativa, principalmente in termini di competenze tecniche e di livello qualitativo nella conduzione di interventi di restauro e di campagne manutentive. Inoltre, l’adozione di materiali e tecniche tradizionali può contribuire a massimizzare la componente conservativa rispetto al rinnovo, contribuendo anche ad un approccio generale più sostenibile. Ma è promettente anche la prospettiva di riverberi positivi in altri ambiti, come il rafforzamento della realtà artigiana in termini economici e sociali; la possibile apertura di opportunità professionali per le nuove generazioni e una maggior consapevolezza delle comunità locali rispetto alla difesa del patrimonio comune. Da qui l’importanza di attivare sinergie fra università, enti locali e di tutela e ambiti operativi. Il tentativo di percorrere, in apparente controtendenza, la via della tradizione - non intesa come alternativa ma come opzione complementare a quella di un’innovazione compatibile - è anche un tentativo di conciliare passato e futuro, i due referenti cronologici della conservazione, dialetticamente evocati da Walter Benjamin nel riferimento all’Angelus Novus di Paul Klee.
2021
9788895409252
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