Questo capitolo indaga le complessità e le contraddizioni di un territorio profondamente disegnato dalle pratiche produttive e dai sistemi di coltivazione caratteristici dell’entroterra marchigiano e, più precisamente, della campagna urbinate. Un territorio refrattario ai luoghi comuni, alle classificazioni preconcette e alle descrizioni generaliste. Un territorio capace di rovesciare, o meglio di capovolgere, il retaggio culturale, lo statuto sociale, e le prospettive economiche generalmente attribuite al settore agricolo. In altri termini, un territorio in grado di coltivare la miseria. Un territorio bipolare e bipartito, in equilibrio instabile tra i saperi tradizionali e tradizionalisti della cultura contadina – impressi nel terreno dai solchi e dalle traiettorie della zappa, dell’aratro (meccanico) e del lavoro manuale – e le innovazioni tecniche e tecnologiche sostenute e promosse dalle aziende agricole in esso distribuite. Un territorio senza nostalgia, senza rimpianti per un antico e perduto passato o per un’arcadia agreste, ma al contempo senza l’ossessione per il progresso, per l’innovazione, per il novum che avanza. Un territorio estraneo alle logiche cartesiane del modernismo, ma anche alle ironiche, dissolutive e a tratti disimpegnate speculazioni del postmodernismo. Un territorio di antinomie e di relazioni antitetiche, di architetture senza architetti, di progetti inscritti nello statuto teorico dalla terza età della macchina, ma anche di modernità deboli e (poco) diffuse. Un territorio, quindi, costellato di casolari incastonati negli strati rocciosi dei versanti collinari, di impianti produttivi meccanizzati e autosufficienti e di sparuti edifici residenziali, testimonianze di una modernità che non è mai riuscita a prendere il sopravvento. Un territorio fragile e delicato, tenuto in vita dalle perseveranti azioni di cura dei suoi abitanti, i quali, come sarti, tessono instancabilmente le trame e le orditure dei filari alberati, dei vitigni e delle coltivazioni cerealicole in esso disseminate. Ma anche un territorio d’avanguardia, dallo spiccato spirito imprenditoriale, forgiato nell’acciaio della sua produzione armiera e nella varietà dei generi alimentari prodotti dalle cooperative agricole ospitate nelle sue terre. Un territorio estraneo alle organizzazioni spaziali, alle strutture insediative e ai sistemi di circolazione caratteristici del tessuto cittadino, e quindi, un territorio scarsamente infrastrutturato, o meglio attraversato da reti di comunicazione viaria limitate e poco articolate, per quanto ampiamente sufficienti a garantire la mobilità interna. E ancora un territorio indifferente ai princìpi e ai precetti della cultura urbana; un territorio che per conformazione topografica e geomorfologica – oltre che per ragioni programmatiche e politiche – sembra riluttante ad accogliere l’imperativo modernista del “grande e veloce”, senza tuttavia rinunciare all’efficienza e alle potenzialità di sistemi di connessione fisici e immateriali. Un territorio fondato sulla proprietà privata e sulla gestione familiare, frazionato in una moltitudine di piccoli appezzamenti terrieri indipendenti, seppur collegati tra loro da una fitta rete di relazioni economiche e sociali. In ultima istanza, questo breve testo descrive un territorio sovversivo – nell’accezione etimo- logica del termine – in grado, quindi, di ribaltare, o meglio di invertire – da sotto a sopra – le narrazioni e le ideologie ad esso attribuitegli o che da esso scaturiscono. Un territorio capace di sfruttare la frammentarietà e l’eterogenea distribuzione delle sue estensioni campestri in risposta agli effetti dei cambiamenti climatici. Un territorio abituato a tramutare il portato etico ed estetico dell’estenuante e, per certi versi, miserabile vita nei campi in un prodotto esportabile in tutto il pianeta. In altri termini, un territorio dialettico.

Alci nere. Itinerari e cartografie di un arcipelago produttivo

Zaupa, Davide
2025-01-01

Abstract

Questo capitolo indaga le complessità e le contraddizioni di un territorio profondamente disegnato dalle pratiche produttive e dai sistemi di coltivazione caratteristici dell’entroterra marchigiano e, più precisamente, della campagna urbinate. Un territorio refrattario ai luoghi comuni, alle classificazioni preconcette e alle descrizioni generaliste. Un territorio capace di rovesciare, o meglio di capovolgere, il retaggio culturale, lo statuto sociale, e le prospettive economiche generalmente attribuite al settore agricolo. In altri termini, un territorio in grado di coltivare la miseria. Un territorio bipolare e bipartito, in equilibrio instabile tra i saperi tradizionali e tradizionalisti della cultura contadina – impressi nel terreno dai solchi e dalle traiettorie della zappa, dell’aratro (meccanico) e del lavoro manuale – e le innovazioni tecniche e tecnologiche sostenute e promosse dalle aziende agricole in esso distribuite. Un territorio senza nostalgia, senza rimpianti per un antico e perduto passato o per un’arcadia agreste, ma al contempo senza l’ossessione per il progresso, per l’innovazione, per il novum che avanza. Un territorio estraneo alle logiche cartesiane del modernismo, ma anche alle ironiche, dissolutive e a tratti disimpegnate speculazioni del postmodernismo. Un territorio di antinomie e di relazioni antitetiche, di architetture senza architetti, di progetti inscritti nello statuto teorico dalla terza età della macchina, ma anche di modernità deboli e (poco) diffuse. Un territorio, quindi, costellato di casolari incastonati negli strati rocciosi dei versanti collinari, di impianti produttivi meccanizzati e autosufficienti e di sparuti edifici residenziali, testimonianze di una modernità che non è mai riuscita a prendere il sopravvento. Un territorio fragile e delicato, tenuto in vita dalle perseveranti azioni di cura dei suoi abitanti, i quali, come sarti, tessono instancabilmente le trame e le orditure dei filari alberati, dei vitigni e delle coltivazioni cerealicole in esso disseminate. Ma anche un territorio d’avanguardia, dallo spiccato spirito imprenditoriale, forgiato nell’acciaio della sua produzione armiera e nella varietà dei generi alimentari prodotti dalle cooperative agricole ospitate nelle sue terre. Un territorio estraneo alle organizzazioni spaziali, alle strutture insediative e ai sistemi di circolazione caratteristici del tessuto cittadino, e quindi, un territorio scarsamente infrastrutturato, o meglio attraversato da reti di comunicazione viaria limitate e poco articolate, per quanto ampiamente sufficienti a garantire la mobilità interna. E ancora un territorio indifferente ai princìpi e ai precetti della cultura urbana; un territorio che per conformazione topografica e geomorfologica – oltre che per ragioni programmatiche e politiche – sembra riluttante ad accogliere l’imperativo modernista del “grande e veloce”, senza tuttavia rinunciare all’efficienza e alle potenzialità di sistemi di connessione fisici e immateriali. Un territorio fondato sulla proprietà privata e sulla gestione familiare, frazionato in una moltitudine di piccoli appezzamenti terrieri indipendenti, seppur collegati tra loro da una fitta rete di relazioni economiche e sociali. In ultima istanza, questo breve testo descrive un territorio sovversivo – nell’accezione etimo- logica del termine – in grado, quindi, di ribaltare, o meglio di invertire – da sotto a sopra – le narrazioni e le ideologie ad esso attribuitegli o che da esso scaturiscono. Un territorio capace di sfruttare la frammentarietà e l’eterogenea distribuzione delle sue estensioni campestri in risposta agli effetti dei cambiamenti climatici. Un territorio abituato a tramutare il portato etico ed estetico dell’estenuante e, per certi versi, miserabile vita nei campi in un prodotto esportabile in tutto il pianeta. In altri termini, un territorio dialettico.
2025
9791222322568
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11578/367021
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